martedì 2 agosto 2016

Pia Pera raccontata in modo magistrale da Francesco Maria Cataluccio. Lo ringraziamo e ringraziamo Doppiozero che ce lo ha regalato









Il giardino di Pia Pera

Ho incontrato la prima volta Pia Pera a Milano, nella sede della Garzanti, dove lavorava, verso la fine degli anni Ottanta. Da come era vestita, e come sorrideva, mi sembrò una simpatica signorina inglese. Ovviamente non glielo dissi, ma, parlando dei comuni interessi per il mondo slavo, mi fece sapere che aveva studiato in Inghilterra. Era stata allieva di Isabel de Madariaga, autrice di fondamentali studi come Caterina di Russia (Einaudi, 1988) e Ivan il Terribile (Einaudi, 2006). Pia Pera si era occupata dei “vecchi credenti”: quei fanatici ortodossi con le barbe, perseguitati dal “modernizzatore” Pietro il Grande. Pubblicò, di lì a poco, quando ancora nutriva legittimamente delle speranze di una carriera universitaria, uno studio scritto come un romanzo: I vecchi credenti e l’anticristo (Marietti, 1992). Pia Pera aveva anche curato l’edizione del primo testo letterario russo, composto da un “vecchio credente”: Vita dell’arciprete Avvakum scritta da lui stesso (Adelphi, 1986): un libro che, in un certo senso, le corrispondeva, per quel misto di passione e attenzione alla quotidianità. Fu questa la prima di molte belle traduzioni dal russo: dai classici, come Puškin e Lermontov, ai contemporanei, come Leonid Dobyčin, La città di Enne (1935) che le pubblicai da Feltrinelli nel 1995. In quella occasione, Pia Pera scrisse una postfazione di grande finezza e cultura, che sembrava un racconto: L’utopia dei cortovedenti. Per sostenere la sua tesi, ci costrinse a pubblicare anche una vecchia e tristissima foto-ritratto di Dobyčin con lo sguardo da incurabile miope. 

Ci frequentavamo spesso in quel periodo, perché abitavamo vicini, dalle parti di Piazza Risorgimento: partecipammo entusiasti all’inaugurazione della squisita Pasticceria “Sissi” e a quella di un improbabile ristorante siciliano (oggi sardo), gestito da un bizzarro ex-carabiniere, suo grande ammiratore. Se passava un russo da Milano, mi invitava a cena; altrettanto facevo io quando capitavano dei polacchi: la vodka c’era sempre. A Pia Pera e a Mauro Martini (che divenne anche suo amico ed estimatore) debbo quasi tutto quel poco che so della Russia.
Poi, e nessuno se ne stupì, Pia Pera iniziò a scrivere e pubblicare suoi romanzi. Il primo, La bellezza dell’asino (Marsilio 1992) erano una raccolta di racconti onirici che mostrano quanto il mondo possa essere completamente diverso, persino capovolto, se osservato e analizzato da un’altra prospettiva, collaterale, ed estraniante. Racconti uniti dal tema della Bellezza, che c’è sempre, da qualche parte, e che ognuno di noi scova: anche in un asino. Queste storie, inspirate dal Sogno di una notte di mezza estate, ebbero un certo riscontro di critica. Ebbe maggior successo di pubblico Diario di Lo (Marsilio 1995), il racconto dal punto di vista di Lolita della vicenda narrata da Nabokov, le procurò molti positivi riconoscimenti ma anche un sacco di grane legali, in seguito alla traduzione in inglese. Il figlio cantante ed erede di Nabokov, la denunciò per “appropiazione indebita del personaggio” e la costrinse a ritirare il libro (negli stessi anni, sempre a Londra, la Feltrinelli, detentrice mondiale dei diritti di Pasternak, intentò con successo una causa contro lo scrittore inglese che aveva scritto il seguito de Il dottor Zivago). Così Pia, dopo aver abbandonato l’idea di insegnare storia e letteratura russa o lavorare stabilmente per l’industria editoriale, perse la voglia anche di scrivere racconti e romanzi.

Ho sempre pensato che in Pia ci fosse un forte bisogno di sognare, non in astratto, ma immaginare di fare e realizzare qualcosa di bello e giusto. Prese a viaggiare in Francia sulle tracce di un’utopia moderna reale. Pubblicò un libro molto strano: L'arcipelago di Longo Maï. Un esperimento di vita comunitaria, (Baldini e Castoldi, 2000). Nell’introduzione, scriveva: "Longo Maï significa ‘lungo maggio’ in lingua provenzale, un augurio e una speranza per questo esperimento di vita comunitaria nato appunto in Provenza nel 1972 e diffusosi in seguito in vari paesi europei. Sono numerosi gli esperimenti sociali ed economici con l'obiettivo di prescindere dalla logica del profitto e attuare l'autogestione; centri sociali, banche alternative, cooperative di produzione e di servizi. Arrivata ormai alla seconda generazione, Longo Maï fornisce spunti di riflessione critica a un modello di aggregazione possibile in un progetto comunitario flessibile, mutevole e soprattutto capace di realizzare l'ideale anarchico, ispirato ai principi del socialismo utopico e all'impulso libertario del '68”. A quell’esperienza fece seguito un certo malinconico disincanto. Ma era come se avesse toccato qualcosa che, pur nella delusione rispetto ai risultati, non le permetteva più di vivere serenamente la vita di Milano e dei suoi complicati ambienti.

Col nuovo secolo accadde che ereditò un casolare appena fuori Lucca circondato da un bell’appezzamento di terreno, alle pendici di una collinetta che schermava il vento proveniente dal mare. Inizialmente pensò di usarlo come luogo di vacanza, riposo e scrittura. Il ritorno nella sua città natale, dalla quale se n’era andata giovanissima, non era facile, così come il rapporto con il padre, noto giuslavorista, e la famiglia che là ancora abitava. Aveva spiegato questo disagio in un perfetto saggio-racconto intitolato San Michele e il drago (“MicroMega”, n. 3, 1997; pp. 85-90), dove leggeva la sua città e i suoi rapporti famigliari guardando dalle spalle l’elegante Chiesa di San Michele con le sue statue “volutamente costruita più in cielo che in terra”. Pia Pera raccontava il suo rapporto con la natura attraverso le lunghe passeggiate fatte col padre: “si cammina per sentieri di montagna spesso infrascati, attraverso letti di torrenti, si guardano le pievi che da quelle parti sono severe e bellissime, la sera si mangia e si gioca a carte”.

Col passare del tempo, quel casolare un po’ isolato e quel giardino da anni incolto l’attirarono definitivamente a sé, realizzando un sogno che aveva sin da bambina: “Non so da dove mi venga l’impulso ostinato che mi porta all’orto e al giardino, o meglio, all’orto/giardino, visto che per me fanno tutt’uno. (…) Ero ancora una bambina confinata in un appartamento di città e provavo intenso il desiderio di possedere quattro metri quadrati di terra tutti miei per crescerci le mie piante, delimitare un confine inviolabile. Finché i miei – nonni, genitori, zii, l’intera famiglia allargata – non hanno deciso di trasferirsi in una grande casa di campagna, circondata da un boschetto di lecci e di tigli e affiancata da due poderi. I quattro metri quadrati si sono dilatati in altrettanti ettari. Spaesata da tanto spazio, mi aggiravo tra gli alberi, li visitavo uno per uno. Lì è avvenuto anche il primo impatto con l’orto…”. La parte “inglese” di Pia, imbevuta degli incanti de Il giardino segreto (1911) di Frances Hodgson Burnett, prese il sopravvento.  Riscoprì che stare in mezzo alle piante, agli alberi e ai fiori le dava una grande serenità, che forse non aveva mai avuto, in modo così prolungato. E anche tutti i libri che, fino a quel momento, aveva letto, trovavano un senso vero tra i colori e i profumi del suo giardino: “Avevo scoperto che i campi erano per me una grande tela su cui dipingere, un quadro che avrei terminato solo al momento della mia morte. Mi era impossibile giustificare questo cocciuto desiderio di dipingere su quella tela a scapito di qualsiasi altra attività, ma così era. Il podere esercitava su di me un’attrazione che non sapevo spiegare”.

Tornava a Milano per lavoro e per incontrare gli amici, ma era come fosse ormai sempre là. La solitudine agreste sembrava non pesarle. Sistemò il casolare trasformandolo in una bellissima casa piena di libri, quadri e mobili. Il giardino rimaneva in gran parte pieno di erbe spontanee, portate lì dal vento e dagli uccelli. Non osava toccarlo. Fu allora che scoprì il botanico e filosofo giapponese Masanobu Fukuoka (1913-2008), pioniere dell’agricoltura naturale e del non fare. Il suo libro-manifesto La rivoluzione del filo di paglia (LEF, 1980) si ispira al concetto del Mu (che, in giapponese, significa “senza” o anche “nessuno”), che è il nucleo dell'insegnamento del Buddhismo Zen. Fukuoka chiamava le sue pratiche di coltivazione: “agricoltura del Mu”. Per lo Zen, l'Universo è in un costante flusso di cambiamento, in cui ogni cosa avviene spontaneamente. Per questo, si ritiene che il miglior modo di agire sia "senza” agire, lasciando libero il campo a quel "meccanismo di autoregolazione della Natura che può manifestarsi soltanto se non gli si fa violenza", rispettando, ad esempio, nell'agricoltura, i suoi orologi interni ed esterni, atmosferici. Pia Pera sposò questa filosofia, ma non era nel suo carattere alcuna forma di fanatismo. Per questo motivo, nella pratica del suo orto e del suo giardino, attuò solo in parte le idee di Fukuoka, lasciando libero spazio alla sua fantasia, all’intuito e al buon senso che le suggerivano i contadini toscani, o qualche altro “ex cittadino” fuggito in campagna, dei quali era diventata buona amica. Quel giardino e quell’orto erano il suo “regno”. Centinaia di varietà di fiori, verdure e piante (alcune recuperate da semi antichi fatti arrivare da una banca londinese) conferivano al luogo un aspetto di giungla attraversata da ordinati vialetti. Pia accarezzava delicatamente le piante, passandoci sopra il pettine della sua mano. Grazie a lei ho imparato a riconoscere, e amare, tra le tante piante che non conoscevo, il “Tasso barbasso”.

Pia Pera iniziò a raccontare quella sua esperienza di cittadina trasferitasi in campagna alle prese con le piante e i fiori indisciplinati: “Non chiamatele ‘erbacce’: le erbe spontanee sono ospiti della mia terra!”. I suoi testi dimostrano competenza, saggezza e poesia. Chi l’aveva persa di vista, rimase colpito nel leggere le pagine straordinarie del suo libro L'orto di un perdigiorno. Confessioni di un apprendista ortolano (Ponte alle Grazie, 2003; TEA, 2015). Non è un manuale di giardinaggio, ma un racconto letterario-botanico che si colloca nel solco dei libri di Ippolito Pizzetti (Robinson in città. Vita privata di un giardiniere matto, Archinto, 1998), o ancor più di Paolo Pejrone (In giardino non si è mai soli. Diario di un giardiniere curioso, Feltrinelli 2002; Il vero giardiniere non si arrende, Feltrinelli 2003). In più, Pia Pera aggiunge alle sue pagine una squisita vena letteraria che la fa accostare a libri come Rudolf Borchardt, Il giardiniere appassionato (1968; Adelphi 1992).


Opera di Renoir.

Pia iniziò a riflettere sul suo nuovo lavoro e sugli obiettivi che si era data. Pubblicò Il giardino che vorrei (Electa, 2006; Ponte alle Grazie, 2015): “Il giardino che vorrei mi sarebbe piaciuto leggerlo all’inizio, quando ho avuto a mia disposizione un podere: ero piena d’amore e d’entusiasmo, ma le mie idee erano quanto mai vaghe. Adesso sarei pronta a ricominciare da capo, non fosse che – nel frattempo – mi sono affezionata al mio, seppure imperfetto, giardino”. Ma non si dedicava soltanto al giardino e a scrivere di esso. Manteneva contatti con varie organizzazioni legate alle piante e appoggiava le azioni dei “guerrilla gardens”, che nelle città compiono semine clandestina di spazi abbandonati. E collaborava con artisti, come quando scrisse per Gianna Nannini tutti i testi di un’opera rock: Pia come la canto io (2008), ispirata a Pia de’ Tolomei, protagonista del Quinto Canto del Purgatorio. I testi sono altamente poetici e uniscono suggestioni antiche, medievali a valenze e sapori moderni e contemporanei, con un duro plurilinguismo, con accenni anche al triviale, alla maniera dantesca.
 
Più “militanti” e pratici sono i volumi successivi, frutto dell’ insegnamento attraverso il suo sito web e conferenze: Contro il giardino dalla parte delle piante (Ponte alle Grazie, 2007) e Le vie dell'orto. Coltivare verdura e frutta sul balcone, sul davanzale o in piena terra e difendere il proprio diritto alla semplicità  (Terre di mezzo, 2011). L’orto e il giardino sono ormai un lavoro non soltanto pratico, ma anche di riflessione, aggiornamento, scoperta di tecniche e trucchi. Pia vuole comunicare agli altri la realizzazione della sua piccola utopia e la felicità che le viene dallo stare a contatto con la natura. Il lavoro nel giardino le pare un lenitivo, una terapia, e una prevenzione contro i mali del mondo contemporaneo: Giardino & ortoterapia. Coltivando la terra si coltiva anche la felicità (Salani, 2010).

Ma poco dopo avviene il patatrac: una gamba che non si muove bene, analisi che non chiariscono niente, l’aggravarsi dello stato generale di salute, la diagnosi di un progressivo stato degenerativo… Pia continua come può a vivere il suo giardino, anche se i fiori a poco a poco non li può più curare, e la terra non riesce più lavorarla. Si accentua inevitabilmente la sua simbiosi ed identificazione con esso: “È cresciuta l’empatia. La consapevolezza che, non diversamente da una pianta, io pure subisco i danni delle intemperie, posso seccare, appassire, perdere pezzi. Non sono più un osservatore esterno. Mi trovo io stessa in balia. Questo ispira un sentimento di fratellanza col giardino.

Altrettanto indifesa, altrettanto mortale. Quasi fossi io il giardino”. Tutto questo è narrato in un volume che rimarrà a lungo nei cuori dei lettori: Al giardino ancora non l’ho detto (Ponte alle Grazie, 2016). Non si tratta più di un libro di botanica alternativa né di riflessioni letterarie sulle piante e gli orti: questo è un libro che, pur non nascondendo la malattia e la sofferenza, infonde una grande serenità, in un senso di equilibrio e fatalità che la Natura trasmette a chi sa starci dentro e rispettarne le leggi. Il giardino è il contraltare della malattia. Le piante che soffrono, sembrano essere solidali con il giardiniere ammalato. Pia ascolta e si ascolta, e racconta quello che le accade nelle corsie degli ospedali, i pensieri che la assalgono di notte, i brani letterari (soprattutto russi e inglesi) che le tornano in mente a proposito di ciò che le accade e non la fanno sentire sola. Accetta un po’ alla volta, con calma, di “essere qualcosa di piccolo e indefinito, un puntino nel paesaggio”. Il libro ha l’andamento e il tono di un diario di una discesa e un po’ di un prezioso testamento che non manca di ricordarci che “il vento è disegnato dai petali del susino che cadono leggeri”.


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