Sono un mattone delle mura aureliane, ma mi piace pensare che in fondo
sono una pietra come le altre. Ero argilla, terra cruda, prima di
passare nel forno. Dopo la mia trasformazione una mano abile mi ha
innalzato qui sopra quella che oggi chiamate porta S. Giovanni. Una
posizione privilegiata per osservare non c’è dubbio. E io da 17 secoli
osservo l’umanità passare attraverso le soglie di Roma. Ho visto
l’artigiano che mi ha forgiato, ma non riesco a scordare gli occhi del
suo schiavo, un giovane ragazzo che avrebbe preferito di gran lunga
fuggire, o anche trovare la morte piuttosto che declinare la sua vita al
padrone.
Ho visto il carpentiere portarmi su in alto, ne ho
visti molti precipitare. Le mura si sa le costruiscono coloro che ne
beneficeranno di meno. Anche in quel periodo, il III secolo, si parlava
di crisi. Una crisi del tradizionale sistema economico, un periodo di
instabilità con quelli che voi chiamate “barbari” che spingevano ai
confini dell’Impero, lo scontento degli humiliores che sfociava spesso
in sedizione. Quante volte ho visto le legioni imperiali affogare nel
sangue i tentativi della plebe di cambiare la propria vita.
All’ombra
delle mura di cui faccio parte ho sentito confabulare, congiurare,
cospirare, arringare il popolo: “Che vengano i germani, che distruggano
quest’impero maledetto”.
Ho visto i Visigoti di Alarico e i
Vandali di Genserico con le loro orde travolgere le mura e saccheggiare
la città eterna. E più in la i lanzichenecchi di Carlo V che vennero a
punire il nuovo imperatore che si faceva chiamare Papa: come ogni
sovrano regnava nella corruzione e nel terrore. Ma a pagare le scelte
dei signori è il popolo stesso che ha eretto e solidificato le mura
delle maestose città.
Ho visto la Repubblica Romana ed i suoi
ideali di libertà decapitati nuovamente dall’oppressore. Ho visto delle
orrende palle di fuoco cadere dall’alto. Ho visto imponenti esseri
d’acciaio solcare in cielo in grandi guerre mondiali. Ho visto delle
milizie con la camicia nera scimmiottare la mitologia dell’antica Roma
per difendere le proprietà e l’ordine dalla stessa popolazione che
dicevano di rappresentare.
Avrei voluto gridare che la Storia,
vista come il solco tracciato dalla ruota del carro dei vincitori, è una
menzogna, una menzogna insanguinata, un incubo da cui risvegliarsi.
Avrei voluto gridare a tutti quelli che passano di lasciar perdere i
grandi condottieri, gli Imperatori i Re, i Papi, gli statisti e i
Presidenti e pensare, immaginare, sognare lo schiavo in rivolta,
l’eretico, la prostituta ribelle che arringa la folla, il bambino che
raccoglie una pietra e la scaglia sul soldato. Avrei voluto gridare.
L’ho fatto. Ma lo sapete, la mia voce è muta.
Ma vedo ancora bene
e sento i vostri discorsi, sento la rabbia la frustrazione ma anche la
rassegnazione e la morte di ogni speranza. Vi sento dire che niente
cambierà che è tutto inutile. La più grande menzogna che la democrazia –
la nuova forma subdola di dominio- vi ha inculcato è che tutto è
destinato a rimanere così per sempre. Perché d’altronde questo, è il
migliore dei mondi possibili: quello dell’Economia.
Pensate che i
grandi avvenimenti storici sono già tutti avvenuti e di non essere
parte di nessun movimento tellurico della Storia. Pensate di essere
gettati sul binario da seguire che è quello del lavoro, della noia,
della sottomissione e del divertimento come palliativo.
Non è vero. Avete la scelta.
Ho
visto, dalla mia posizione privilegiata, una fiumana di gente correre
in direzione di piazza San Giovanni, il 15 ottobre del 2011. Dietro di
essa una decina di mostri meccanici rincorrerla e girare all’impazzata,
seguita a piedi dai gendarmi del vostro tempo, con le loro corazze
forgiate apposta per fronteggiare le sedizioni urbane. Avevano la stessa
faccia dei legionari e dei soldati del Papa, massacratori di ribelli
nei secoli orsono. Ho visto giovani infuriati attaccarli con impeto,
spazzando via con un calcio la paura, proprio come rimandavano indietro
degli strani cilindri che sputavano un fumo urticante. Ho visto la folla
silenziosa diventare classe pericolosa, accerchiare e uccidere col
fuoco il mostro meccanico, e far fuggire a gambe levate le guardie
vilmente nascoste al suo interno. Ho visto vergare sopra un altro muro
“Oggi abbiamo vissuto”. Ho sentito urla, incitazioni, risate, bestemmie,
maledizioni, grida di gioia e di paura. Questo grido lo brama
ardentemente il brivido sottile che corre lungo le innumerevoli schiene.
Per l’esistenza più profonda, inconsapevole della massa, le feste di
gioia e i falò sono solo lo spettacolo nel quale essa si prepara
all’istante dell’emancipazione, a quell’ora in cui il panico e la festa,
riconoscendosi fratelli dopo una lunga separazione, si abbracciano
nell’insurrezione rivoluzionaria.
Guardavo tutto dall’alto ma
volevo far parte anche io della battaglia, cadere sulle teste dei
nemici, raggiungere finalmente il suolo per essere preso da una mano
lesta, non volevo e non voglio essere muro, voglio essere breccia,
voglio volare.
La lenta stratificazione delle epoche storiche
alla quale assisto impassibile mi ha insegnato che gli oppressi non
hanno nulla da guadagnare da mura di cinta, galere, e confini.
Da
qui vedo i grandi palazzi del commercio e della finanza, i luoghi di
culto della rassegnazione e quelli del denaro: sono già rovine prima di
decadere. All’ombra di ogni tempio nascono degli eretici così come
all’ombra delle mura, tra i passanti, nasce e si diffonde il pensiero e
la pratica sediziosa della solidarietà e della condivisione.
Le pietre passano di mano in mano.
Anonimo
Francesco Cataluccio
Ha studiato filosofia e letteratura a Firenze e Varsavia. Dal 1989 ha lavorato nell’editoria e oggi si occupa dei programmi culturali dei Frigoriferi Milanesi. Tra le sue pubblicazioni: Immaturità. La malattia del nostro tempo (Einaudi 2004; nuova ed. ampliata: 2014); Vado a vedere se di là è meglio (Sellerio 2010); Che fine faranno i libri? (Nottetempo 2010); Chernobyl (Sellerio 2011); L’ambaradan delle quisquiglie (Sellerio 2012); La memoria degli Uffizi (Sellerio 2013).