domenica 30 gennaio 2022

ROBERTO BOLANO ,DETECTIVE SELVAGGI

«Mi sarebbe piaciuto fare il detective privato. Sicuramente sarei già morto. Sarei morto in Messico a trenta,trentadue anni, sparato per strada, e sarebbe stata una morte simpatica e una vita simpatica.» (Roberto Bolaño)

venerdì 21 gennaio 2022

Notte fedele e virtuosa, Louise Gluck

Parabola Dopo esserci in primo luogo spogliati dei beni mondani,come san Francesco insegna, perchè le nostre anime non fossero traviate da profitti e perdite, e anche perché i nostri corpi potessero muoversi liberamente sui passi montani, dovemmo poi discutere come o dove potevamo viaggiare, e porci una seconda domanda, se era necessario avere un fine, al che molti di noi obiettarono strenuamente che un fine era come i beni mondani, vale a dire una limitazione o costrizione, mentre altri dicevano che era questa la parola che ci consacrava pellegrini piuttosto che erranti...

venerdì 14 gennaio 2022

Al lupo, al lupo... "Altre concupiscenze", Giorgio Manganelli

Che belle le nuove copertine Laterza!!! Qui, per voi, quella di "C'è speranza se questo accade al Vho", Mario Lodi (2022) E non vedete il colorato, bellissimo retro...

Paolo Di Paolo, da " La Stampa" che ringraziamo

Applausi per Proust: a cent’anni dalla sua morte il genio della letteratura francese fa ancora discutere Ken Follett e Valérie Perrin liquidano la Recherche: così i grandi scrittori cedono al populismo culturale Paolo Di Paolo 11 Gennaio 2022 Modificato il: 11 Gennaio 2022 4 minuti di lettura Bisogna intanto considerare che Marcel Proust disponeva di una speciale sonda, o radar, in grado di rilevare ogni forma di stupidità, ottusità, grettezza. Ma forse la parola più esatta è superficialità. Aveva un talento non comune nel raccontare esseri umani incapaci di profondità. Materiale interessante di per sé: i frivoli, i ridanciani, quelli che dicono sciocchezze per riempire il tempo. Quelli che non sanno, o non vogliono, staccarsi dalla superficie delle cose, dalla loro patina più esterna e più prevedibile. In questo senso, è un peccato che sia morto cento anni fa, perché alla sua galleria, già strepitosa, di soggetti tendenti alla vacuità avrebbe potuto aggiungerne a grappoli, pescati nel nostro secolo. A cominciare però dai suoi colleghi (si fa per dire) scrittori: quelli che, dalla testa delle classifiche dei bestseller, hanno da ultimo sentito l’esigenza di comunicarci la loro insofferenza verso Proust. Per carità, non si è costretti ad amare l’autore della Recherche! Ma che Ken Follett dica, in un’intervista recente, che lui «fa battere il cuore dei lettori» e Proust no, be’, è tutto da vedere. E bisogna considerare che cuore hai in dotazione. Ma il peggio è che Valérie Perrin, l’autrice di Cambiare l’acqua ai fiori, all’ultimo Salone del Libro di Torino, ha confidato al pubblico di avere mollato Proust per noia. Si è beccata l’applauso ridanciano, per l’appunto (ci torno fra un attimo). Ma si è anche esposta al rischio che qualcuno potesse opporre la noia provata leggendo lei. L’applauso, dicevo: sintomatico, tanto più in un tempio dei libri, di un subdolo e invadente populismo culturale. Una evoluzione più sofisticata del celebre grido di Fantozzi sulla Corazzata Potëmkin. Ma se quello era l’atto liberatorio dell’impiegato cittadino comune contro la cappa dello snobismo cinefilo, nel caso di Perrin c’è un compiaciuto (e volgarissimo) darsi di gomito fra simili: ma sì, diciamo pure «che palle!», confessiamoci la nostra voglia di roba semplice, togliamoci le maschere intellettuali. Mah. L’uscita mi ha irritato. E, ribadisco, non perché ci si debba sentire in dovere di leggere Proust, ma perché – a forza di non accettare la sfida della complessità – siamo diventati mostruosamente noiosi. Noi sì, madame Perrin, altro che Proust! Vittima, in qualche modo, proprio di chi non l’ha letto o l’ha letto a pezzi e bocconi e ne ha parlato comunque. Riducendo migliaia di pagine o alla storiella di un pasticcino inzuppato nell’infuso; o a una statica, prolissa, faticosa narrazione introspettiva. L’auto-fiction prima dell’auto-fiction: c’è chi ha avuto il coraggio di definirla così. O – con le migliori intenzioni – di distillarla nello spirito un po’ stucchevole del vademecum esistenziale o del libro che ti cambia la vita. Per carità. Pur essendo ben consapevole dei quintali di bibliografia proustiana, e cioè del fatto che sulla Recherche sia stato in effetti detto tutto, direi che l’unico modo per leggerla o rileggerla è spazzare via, con un gesto anche piuttosto brusco, madeleine, auto-fiction, presunta prolissità, self-help. E farci una semplice, stupida, ingenua domanda; farla a Valérie Perrin, a nostro fratello, allo zio rivisto a Natale, ai fan attempati di Chiara Ferragni, e agli studiosi di letteratura e agli influencer, perfino agli scrittori contemporanei. Non importa che abbiano letto Proust, che lo amino o lo detestino. Importa che siano vivi, e in qualche modo vitali. Bene, la domanda è la seguente: qual è la cosa che vi fa più paura in assoluto, escludendo la morte? È probabile che, formulata in modi diversi e più o meno precisi, la risposta sia, nella sostanza: il tempo che passa. Non c’è altro da aggiungere. Il solo, irreversibile, inoppugnabile e disperante tempo che passa. Quello che comporta rughe sul viso, perdite di posizione e di gente amata, distanza vertiginosa e in qualche modo stupefacente dalla propria stessa giovinezza. Mi piacerebbe incontrare un solo essere umano che abbia superato i venticinque anni e non sia sconcertato e segretamente angosciato da tutto questo. Ecco. La notizia è che Proust ci aspetta tutti qui. Al varco di quella intermittente presa di coscienza, della conseguente nostalgia, e del desiderio di riavere indietro qualcosa. Un uomo nato nel 1871 e morto nel 1922 impiega un decennio della sua esistenza in un’impresa letteraria che funzioni come una macchina del tempo, consentendogli di attraversare gli anni nel verso contrario al loro fluire. Noioso, freddo? Al contrario, mette in gioco – per tornare indietro nel tempo – ogni fibra del suo corpo, ogni strato della capacità sensoriale (i profondi giacimenti del suo «sottosuolo mentale»), e un inarrivabile dominio della sintassi. È il re delle subordinate, delle metafore che inglobano altre metafore; costruisce frasi che, lette a voce alta, fanno letteralmente mancare il fiato (e non in senso figurato). Ma soprattutto sa che, per riavere qualcosa indietro, bisogna votarsi all’esattezza, alla minuzia, alla precisione estenuata: nessuna pioggia è uguale a un’altra, bisogna dire di quella pioggia arrivata davanti al negozio dell’ottico, con gocce d’acqua «simili a uccelli migratori che spiccano il volo tutti insieme». E, per dire, il copriletto a fiori della stanza in cui abbiamo passato le vacanze estive non può essere, non è un qualunque copriletto: ha un odore preciso, e questo odore – scrive Proust – è un odore «intermedio, appiccicoso, insipido e fruttato». E andiamo avanti, andiamo avanti per ore, per giorni: il fogliame di un castagno, un libro in cui ci s’imbatte con stupore nel nome di una persona conosciuta, l’odore buono dell’aria nelle sere d’estate, lo spettacolo stesso dell’estate, «lo spettacolo totale», e tua nonna che non aveva ironia se non per sé stessa e ti bacia con gli occhi, gli asparagi freschi e il sentore che resta nell’urina, campanili come gigantesche brioche. I viola e gli azzurri nelle nuvole, «talmente belli». Le sere burrascose e miti di febbraio. I viaggi che non abbiamo fatto. E le case, le strade, i viali, «fuggitivi come gli anni». Ho finito lo spazio, ma non il tempo, il tempo per riavere il tempo leggendo Proust. Volevo dirvi anche di una certa luce implacabile da far desiderare di sottrarsi alla sua attenzione, di certe note prolungate emesse al mattino da volatili invisibili, del sentiero dei biancospini, di quella volta che sono stato a Iliers e di una frase che dice che la nostra immaginazione «è come un organetto di Barberia scassato». Ma sarà per un’altra volta; e poi sono di nuovo troppo commosso, come sempre quando parlo di Proust, e niente, mi dispiace per Ken Follett e Valérie Perrin, mi dispiace tanto

giovedì 13 gennaio 2022

Città, labirinti, minotauri, mostruosi, rassegnati. Steinberg

Nell’unico contributo audiovisivo presente in mostra, un’intervista del 1967 condotta da Sergio Zavoli per un programma della Radiotelevisione italiana, Steinberg, passeggiando sul tetto di un edificio newyorkese, descrive i palazzi della città come labirinti verticali dentro i quali migliaia di minotauri guardano la televisione. «I minotauri» spiega, «sono coloro che si sono rassegnati a vivere in una città, una specie di città, perfettamente organizzata come un labirinto; è come se fosse uno schedario: sapendo il numero della strada dove uno abita si può capire subito la sua condizione sociale e cioè quanto guadagna, che specie di moglie ha, eccetera, sì. Quello che li rende mostruosi è il fatto che sono professionisti di questo labirintismo, che non cercano per nulla di salvarsene, ne hanno fatto un mestiere, la professione di vivere lungo la canna degli ascensori, tutta la vita.» Rassegnarsi a vivere nel labirinto, anzi, di più, diventare professionisti...