Il poeta e artista tuareg Hawad
Il premio speciale dell’edizione 2023 di Ostana, festival dedicato alle "scritture in lingua madre", in programma da domani al 25 giurno, va a un artista poliedrico che con la sua opera – non solo poetica ma anche figurativa – contribuisce a tenere viva e attiva la lingua del deserto del Sahara. Si tratta di Hawad, scrittore e pittore tuareg, originario del Aïr, massiccio montuoso del Sahara centrale, che nelle sue opere riunisce poesia e pittura dando forma concreta alla sua lingua, la lingua tamajaght, nell’alfabeto tuareg “ tifinagh”. Hawad ha inventato quella che chiama “furigrafia” per fondere diversi frammenti di realtà in uno spazio artistico immaginario, capace di creare una nuova forma di nomadismo, lontano da un tempo e da uno spazio espropriati, al fine di far risuonare la sua cultura oltre i confini.
Nel suo lavoro combina poesia e pittura. Dove si incontrano e dove divergono queste due arti?
«La poesia e la pittura sono complementari nel mio approccio. Il gesto del pittore entra in gioco quando le parole non hanno più nulla da dire, quando la parola si ferma. È un’estensione della poesia per esprimere l’inesprimibile».
Spesso, quando mettiamo la lingua al centro di una lotta legata ai diritti, una parte della società critica la scelta, sostenendo che non sia una battaglia concreta o utile. Al contrario, la lingua non è esattamente il punto di partenza di ogni forma di resistenza?
«Per me la lingua è al centro della lotta contro la colonizzazione della mente, della cultura e del modo di pensare il mondo. Utilizzare una lingua minoritaria è la prima forma di resistenza contro l’egemonia delle lingue cannibali che dominano il mondo. Ma questo non mi basta. Nel mio lavoro poetico, decostruisco anche la mia lingua, il tamajaght, per sfuggire al pensiero preconfezionato e aprire spazi liberi di espressione di fronte al caos attuale che noi Tuareg stiamo vivendo».
La Furigrafia rappresenta molte cose, ma soprattutto un movimento che dà forma a tutto il suo lavoro. Se dovesse definirla in poche parole, cosa direbbe?
«È un modo di andare oltre i limiti delle parole, delle categorie, delle forme e degli stili consolidati. Cerco di superare i confini e costruire nuovi spazi per pensare, sentire ed esprimere il mondo in modo diverso, sia in letteratura che in pittura».
Durante il suo viaggio in Africa, papa Francesco ha detto che «l’idea che l’Africa possa essere sfruttata deve finire» e che abbiamo bisogno di «più dialogo tra le tribù». Cosa ne pensa?
«Quando papa Francesco ha detto a Kinshasa: "Togliete le mani dall’Africa. Smettete di soffocare l’Africa: non è una miniera da sfruttare o una terra da derubare", l’ho trovato straordinario. Sono parole rare, sagge, forti e coraggiose di fronte al cinismo, all’avidità e alla violenza delle potenze economiche globali che sono pronte a sacrificare milioni di vite e a distruggere la terra che nutre i popoli africani per raccogliere enormi profitti in collusione con i leader politici corrotti degli Stati africani».
Una delle sue poesie parla di orizzonti che cambiano, di nomadi, margini e periferie del mondo, ma soprattutto di immaginare altre forme di organizzazione politica, economica e culturale. Quali, ad esempio?
«Gli Stati dell’Africa occidentale creati negli anni ‘60 (e che si dichiarano “indipendenti”) sono eredi della colonizzazione. Sono incapaci di comprendere i benefici della diversità delle loro popolazioni, valorizzando la loro ricchezza culturale, sociale ed economica. Solo i modelli confederali sono in grado di gestire la complementarietà di stili di vita, lingue e culture senza amputarle. Infine, la condizione rimane quella di un modello democratico autentico, dove il popolo conta, e non una finta facciata, perché lo Stato qui è visto come un bottino da una classe politica corrotta e protetta dalle potenze internazionali per accedere alle ricchezze del sottosuolo».
Il tema dell’esilio e dello sradicamento evidenzia molte cose, ma soprattutto la lotta per il recupero della cultura e dell’identità. Quanto è importante riaffermare questo diritto, trasmetterlo, evidenziarlo ogni volta che viene disatteso?
«L’esilio è una sofferenza, ma può anche prolungare ciò che siamo se decidiamo di non rinunciare a noi stessi. Questa è la prima battaglia da combattere. Non si può essere nulla se prima non si costruisce su sé stessi. Le nostre culture, le nostre lingue, le nostre relazioni con gli altri, la nostra immaginazione, sono alla base della nostra capacità di avvicinarci al mondo e imparare da esso. Per quanto riguarda il diritto di insegnare, di trasmettere, di parlare la mia lingua, non aspetto che qualcuno me lo dia, glielo strappo, usandolo in tutti i luoghi in cui è stato vietato».