mercoledì 26 giugno 2019

Lewis Sinclair, testo del rifiuto del Premio Pulitzer (maggio 1926)

Giovedi, 26 Maggio 1926
Per il comitato del Premio Pulitzer,
All’attenzione di Mr. Frank D. Fackenthal, Segretario,
Columbia University
New York City
Egregi signori,
vorrei ringraziarvi per aver assegnato il Premio Pulitzer al mio romanzo “Arrowsmith”. Premio che sono costretto a rifiutare e tale rifiuto non avrebbe senso se non vi spiegassi le ragioni.
Tutti i premi, come del resto anche i titoli e le onorificenze, sono pericolose. Gli scrittori che vogliono vincere dei premi prestigiosi tendono a lavorare non per l’eccellenza, ma per queste riconoscenze amene. Si tende a scrivere in modo timoroso per non stuzzicare i pregiudizi di una commissione creata dal caso. E il Premio Pulitzer per i romanzi è particolarmente discutibile perché é il regolamento è stato costantemente e gravemente travisato.
Infatti, i termini per l’assegnazione del premio sono “per il romanzo americano pubblicato nel corso dell’anno che riesce a rappresentare al meglio l’atmosfera della vita americana nel suo più alto livello di educazione e virtù”. Questa frase, se significa qualcosa, vorrebbe indicare che la valutazione dei romanzi deve essere fatta non in base al loro merito letterario, ma in obbedienza a un qualsivoglia codice di buona forma che potrebbe essere popolare in un momento storico.
Che ci sia una tale limitazione del premio è poco comprensibile, sia per la riduzione che l’annuncio riporta e sia perché alcuni editori hanno strombazzato su tutti i giornali che ogni romanzo che ha ricevuto il Premio Pulitzer è, senza alcun dubbio, il miglior romanzo in assoluto. Il pubblico è indotto a credere, infatti, che il premio sia il più grande onore che un romanziere americano possa ricevere.
Il Premio Pulitzer, per essere accettato in questo modo dagli scrittori, rappresenta molto di più che un migliaio di dollari per la vittoria. C’è la credenza generale che gli amministratori del premio siano come un organismo pontificio, unico organo che abbia con il potere di individuare l’opera con maggiori meriti. Si ritiene che siano sempre guidati da un comitato di critici responsabili, anche se nel caso sia di questo che di altri premi Pulitzer, gli amministratori possono fare, a volte, scelte piuttosto arbitrarie e respingere ottimi suggerimenti.
Se oggi il Premio Pulitzer è così importante, non è assurdo pensare che in una futura generazione potrebbe diventare l’unico obiettivo per il quale ogni romanziere ambizioso s’impegnerà; e gli amministratori del premio potrebbero diventare un organo giurisdizionale supremo, un collegio di cardinali, così radicati e così sacri che a sfidarli si rischierebbe di diventare blasfemi.
Solo rifiutando sistematicamente il Premio Pulitzer, i romanzieri possono impedire che un tale potere venga imposto su di loro.
Il Premio Pulitzer e l’Accademia Americana delle Arti e delle Lettere sono l’inquisizione di seriosi signori letterari: tutto questo spinge gli scrittori a diventare cauti, gentili, obbedienti, e sterili. In segno di protesta, ho rifiutato l’elezione dell’Istituto Nazionale delle Arti e delle Lettere alcuni anni fa, e ora devo declinare il Premio Pulitzer.
Invito gli altri scrittori a considerare il fatto che, accettando i premi e l’approvazione di queste vaghe istituzioni, stiamo ammettendo la loro autorità, e attribuiamo pubblicamente ai giudici un’eccellenza letteraria, e mi chiedo se qualsiasi premio valga questa sottomissione.
Cordiali saluti.
Sinclair Lewis
(traduzione di Michele Crescenzo)

martedì 25 giugno 2019

Mario Lodi, ancora una volta grazie

Bentrovate/i a tutte/i,
Piacenza avrà una grande occasione e il privilegio di poter rivisitare l’esperienza umana e pedagogica del Maestro Mario Lodi. Infatti il Gruppo Territoriale piacentino del Movimento di Cooperazione Educativa (l’Associazione che tanto ha avuto e tanto ha dato a Mario Lodi) e la Casa delle Arti e del Gioco - Mario Lodi, fondata da Mario Lodi e ora diretta dalla figlia Cosetta, porteranno a Piacenza e allestiranno alla biblioteca Passerini Landi, la Mostra “La scuola di Mario Lodi”. L’iniziativa si terrà in collaborazione con il Comune di Piacenza e il sostegno di alcuni sponsor che trovate nel depliant.  Dal 28 settembre, giorno dell’inaugurazione, al 19 ottobre la mostra sarà visitabile dal Lunedì pomeriggio al sabato con gli orari di apertura della biblioteca. Collegati alla Mostra ci saranno spettacoli, presentazione di un libro,  proiezioni di film e laboratori Formativi ai quali occorre iscriversi.Risultati immagini per mario lodi

Ugo Pierri, "Intrupai"





nissun credi più in niente scienza e arte xe dio
goder xe misura del progresso

cojon-operai
impregnai de spirito padronal
invidio-smaniosi de godurie signorili
intrupai de beluina brutalità
i vota suburra e omo forte
le bugie ga le gambe corte?


venerdì 21 giugno 2019

Paolo Universo




***

prendi un pene
lo metti un quarto d’ora a vaginare
con quattro paroline voluttuose
aggiungi dei sospiri
un ansito
un rantolo se vuoi
un pizzico di cuore…
e dopo nove mesi di cottura
ecco al mondo un cretino
se ti assomiglia
pronto a contestare
te
le tue scelte e la famiglia

Paolo Universo




***

con me fai il filosovietico
con altri il filoamericano
quando sei solo che filo fai
melodrammatico Danilo
che vergognandoti di essere sloveno
ti fai chiamare Daniele
menando il vanto d’essere italiano
non ti si addice la parte triste
che reciti per i decrepiti caffè di Trieste
io ti vedrei piuttosto
in una parodia di Franz Lehar
vedova allegra
con lo sguardo gaio
in una grande birreria di Marsovia
scintillante di cristalli di Boemia
brindare a un peto asburgico
di Magris

Professione: poeta


mercoledì 19 giugno 2019

Corso di Paesaggio e Ritratto simbolico sul Po




Segnaliamo a tutti gli appassionati un'interessante e unico corso di fotografia organizzato da
Scuola di fotografia nella natura:
"Corso di Paesaggio e Ritratto simbolico sul Po"
il prossimo 29 e 30 Giugno
per INFO

lunedì 17 giugno 2019

Cosa resta della notte, Costantino Kavafis, da minima&moralia a cui esprimiamo la nostra gratitudine

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Cosa resta della notte, il ritratto inedito di Costantino Kavafis – Intervista a Ersi Sotiropoulos

di Alice Pisu
Giugno 1897. Costantino Kavafis ha trentaquattro anni quando arriva a Parigi, al termine di un lungo viaggio in Europa prima di tornare ad Alessandria. Il caso Dreyfus divide la Francia, la Grecia cerca faticosamente di risollevarsi dalla guerra con la Turchia. Ersi Sotiropoulos, scrittrice greca tra le più tradotte al mondo, immagina ciò che vive e prova Kavafis durante quel breve soggiorno parigino, descrivendone le trasformazioni interiori nella ricerca poetica, rendendolo protagonista di Cosa resta della notte, edito da Nottetempo nella traduzione a cura di Andrea Di Gregorio, curatore anche della nuova edizione Poesie, per Garzanti, 2017, e della traduzione italiana di tutti gli autori greci attualmente più noti, tra cui Petros Markarīs.
Il ritratto inedito che Sotiropoulos consegna al lettore intreccia i puntuali fondamenti biografici all’immaginario generato dalle suggestioni percepite nella personale lettura dell’opera del poeta, tratteggiando elementi che poi sarebbero diventati predominanti nella produzione successiva: il rapporto con l’eros omosessuale; la personale idea di bellezza; il suo sguardo sui luoghi e la relazione con l’appartenenza; il vincolo della dimensione famigliare e l’oppressione a cui si collega. Le sembianze tormentate che assume il desiderio si mostrano, in relazione alla ricerca del piacere, nella costruzione di una realtà propria, inventandola, come avrebbe poi scritto in Un giovane dell’arte della parola nel suo ventiquattresimo anno: “Lavora adesso, mente, come puoi”.
La scelta strutturale e l’uso della terza persona senza staccarsi mai dalla prospettiva del poeta nel raccontare gli eventi che lo vedono protagonista, si collegano alla sospensione vissuta in una fase ancora acerba della produzione poetica di Kavafis. “Aveva bisogno di ripartire da uno stato primordiale, quasi primitivo, almeno per quanto riguardava il suo desiderio di scrivere e il suo obiettivo, una tabula rasa che non lasciasse spazio a ciò che avrebbe perso [..]”. A partire da quell’urgenza, Kavafis investiga le ragioni della poesia, arrivando a definirla tra le pagine del romanzo come una condensazione del ciclo della vita.
La cura formale in Cosa resta della notte si riversa nella centralità data alla parola, nel descrivere gli stati d’animo e i turbamenti del poeta attraverso riferimenti letterari espliciti e nascosti. Il rimando a Vita di Antonio nella descrizione che  Plutarco dà dell’attesa prima dello stravolgimento, in una città silente tratteggiata nella sospensione dolorosa e angosciosa come preludio a un accadimento devastante, è la medesima che vive il poeta stesso. Saranno in particolare i versi di Baudelaire L’Albatros, a ispirare le continue riflessioni sulla condizione del poeta e, con sguardo più ampio, sulla conflittualità della natura umana: “Era mortale, ma sperava nell’eternità, e qualche volta, agitando le grandi ali, si illudeva. Solo per un po’. L’illusione non durava a lungo. Il desiderio vano, le ali inutili, ogni giorno gli ricordavano, tormentandolo, ciò che gli era irraggiungibile”.
Da cosa nasce l’idea di dare forma a un’indagine su Costantino Kavafis che prende le mosse dal reale, nel rintracciare riferimenti biografici relativi al periodo parigino, per emanciparsi da essi e dare forma a un rintratto per certi aspetti inedito del poeta, attraverso la biofiction?
Tutto è iniziato molti anni fa nel 1984 quando ho curato una mostra dedicata a Costantino Kavafis a Palazzo Venezia a Roma. Mentre consultavo gli archivi e preparavo il catalogo per la mostra, scoprii che Kavafis aveva viaggiato a Parigi e Londra a maggio-giugno 1897. Ci sono pochissime informazioni su questo viaggio, la prima e ultima vera vacanza della sua vita (solo pochi souvenir: copie della rivista L’Illustration, il biglietto di una sartoria di camicie, ecc.). Questo vuoto di informazioni mi ha intrigato. Cosa ha fatto Kavafis a Parigi? Chi ha incontrato?
Più tardi ho scritto la sceneggiatura di un documentario su Kavafis per la serie televisiva francese “Un secolo di scrittori” , e le stesse domande ritornarono. Nel 1897, a trentaquattro anni, Kavafis è un poeta ancora incompleto, assai mediocre, a parte poche eccezioni. Viene da una Alessandria cosmopolita ma provinciale al contempo, e arriva in una città che è l’avamposto delle avanguardie, il luogo in cui vivono e creano Marcel Proust, Erik Satie e Edgar Degas tra gli altri, dove il Modernismo sta nascendo. Quale è stato l’impatto su questo giovane aspirante poeta? L’immagine che abbiamo di lui è di qualcuno già vecchio, distaccato. A me invece interessava Kavafis giovane, Kavafis prima di diventare Kavafis.
L’arte ha un ruolo rilevante nel romanzo: attraverso la figura del fratello John, Costantino si interroga sul ruolo che essa dovrebbe avere, sull’insensatezza di una definizione formale in merito a correnti e movimenti, e su una necessità nell’arte in relazione a un “godimento esigente”. La sua idea è in netta contrapposizione con la posizione del fratello, legata invece al ruolo sociale di cui egli è un convinto sostenitore.
Provo una certa affinità con l’idea dell’arte che aveva Costantino Kavafis. L’arte deve anzitutto essere piacere e apertura dello spirito. Nel momento in cui si fa didattica, allora sfiorisce, diventa noiosa.
Tra gli aspetti che emergono con maggior forza nel ritratto di Kavafis che prende forma nel romanzo, ci sono le insicurezze, le incertezze, le inquietudini, che non solo dominano il suo agire ma i pensieri, e si legano al tormento e alla percezione di inadeguatezza vissuti nel confronto con i grandi riferimenti letterari, da Baudelaire, a Hugo, a Verlaine, Rimbaud e Mallarmé. Nel restituire quel disagio, ritorna a più riprese nell’intero romanzo il giudizio subìto da un critico: “Debolezza espressiva, tecnica difettosa”.
Questo giudizio, inizialmente attribuito a Jean Moréas (poi ci sarà un ribaltamento), lo tormenta lungo tutto il romanzo. Ed è comprensibile perché Jean Moréas era una figura eminente nella scena letteraria parigina, capace di rendere un giovane scrittore famoso o decapitarlo nella stessa giornata. Kavafis è pieno di ambizioni, ma ancora timido e tormentato dai dubbi.  Le grandi figure della letteratura lo opprimono, cerca di imitare i grandi poeti, ma senza successo.  Penso che uno scrittore, un artista importante, anche quando diventa famoso, rimane in fondo insicuro, solo gli sciocchi sono sicuri di sé. Leggevo recentemente i diari di Lev Tolstoj, l’apoteosi dell’insicurezza: “Chi sono? So scrivere? Ho solo ambizioni, nient’altro”.
L’elemento sessuale più che limitarsi al richiamo dettato dal desiderio, si collega nel romanzo alla necessità di affermazione di sé e al contempo di trascendenza. Che peso assume il desiderio nell’indagine sulla parola in Kavafis e che forma acquisisce nella narrazione questa urgenza, resa anche con continui rimandi, descrizioni per immagini, figure retoriche, mimesi che contengono antimimesi come il peletto che si fa custode della parola?
Nel 1897 Kavafis aveva accettato la sua omosessualità, anche se socialmente era una persona molto formale e riservata. Ma per quanto tormentato e represso potesse essere stato il suo desiderio per gli altri uomini, lui stava avvicinandosi ad un punto della sua evoluzione come poeta in cui sarebbe stato in grado di scrivere apertamente su quel desiderio, in modo diretto, non apologetico, unificando la sua passione per la civiltà “ellenica” del passato e la sua passione per gli uomini in poesie che soddisfavano i suoi rigorosi standard per la pubblicazione. Da quel momento in poi, arte e vita saranno impossibili da dissociare in lui. Ciò che mi interessava sin dall’inizio era catturare il momento, quel momento eccezionale, in cui il desiderio fisico si trasforma in impulso creativo. In un certo senso, Kavafis in quel periodo di transizione nel 1897, è stato per me l’occasione e anche il pretesto per esplorare il rapporto tra passione erotica e creatività.
Il corpo come oggetto d’indagine si slega dal mero rapimento estetico per investigare il legame con la memoria che avrebbe dominato composizioni scritte successivamente al 1897, basti pensare a Torna (“[..]Tutta la carne nel ricordo tendimi”). Che rapporto emerge nel romanzo tra Kavafis e le proprie ossessioni, nel subirle vivendone il disagio e nell’alimentare la sua misura del piacere?
Ci nutriamo anche delle nostre debolezze e ossessioni, è ciò che fa di noi quel che siamo. Si tratta del viaggio di ritorno ad Alessandria, che ha una carica emotiva molto diversa rispetto al momento della partenza. Parigi è la tappa finale prima del ritorno e c’è un coinvolgimento forte, perché Kavafis sta per riprendere la routine della sua vita, tornare in un ufficio che lo annoia, e ritrovare la stessa dolorosa situazione in casa. Ho cercato di immaginare questo giovane poeta come sospeso su quell’unico crocevia: Alessandria sullo sfondo, una città remota e cosmopolita, più in là, la Grecia, umiliata e ancora una volta economicamente distrutta, e infine Parigi, illuminata e al culmine della sua gloria.
L’interesse per il corpo si ricollega in qualche modo anche al suo modo di interrogarsi sulla religione, sul sovrannaturale. Nei versi che scriverà successivamente svilupperà a più riprese, nel riferimento all’idea di un dio, continue riflessioni sul rapporto dell’individuo con l’esistenza (trattato tra gli atri, anche in versi come L’intervento degli dei) e che in Cosa resta della notte si collega all’urgenza di una ricerca.
Aveva una curiosità per il sovrannaturale. Quel che volevo, e penso che emerga in particolare nelle utime scene del romanzo, era evidenziare le particolarità di questo interesse. Pur portando una croce d’oro su di sé, Kavafis non era credente in senso convenzionale, ma piuttosto attirato dai simboli e dai rituali della chiesa e della liturgia ortodossa, dalla processione dell’epitaffio nella settimana santa, da una certa sensualità del rito ortodosso legata al corpo di Cristo come oggetto di adorazione.
Emerge un rapporto contrastato con i luoghi di appartenenza, reso alternando descrizioni che rimandano a una nostalgia priva, però, di mancanza – come avrebbe scritto in una lettera all’amico Periksís –,  e con la figura materna, tra amore e repulsione. Il dispregiativo con cui Kavafis si riferisce alla madre racchiude un giudizio nei confronti della sua debolezza emotiva, della necessità di ottenere attenzioni attuando continui ricatti emotivi a partire dalla dipendenza alimentare. Come vive il vincolo con la città natìa e con l’amore oppressivo della madre?
Kavafis era molto legato a sua madre, una madre assai oppressiva, rimasta vedova molto giovane con sette figli maschi. Lui era il più piccolo, il più coccolato, ed  è stato aiutato dai fratelli, sopratutto da John. Provava un grande amore nei loro confronti e contemporaneamente si sentiva oppresso in questo nucleo traumatizzato dal fallimento economico e dal declino sociale dopo la morte del padre. La sua era una famiglia della diaspora, cosmopolita, in orbita tra Constantinopoli, Londra, Liverpool, la Grecia, la Francia. Lui passerà tutta la vita ad Alessandria, ma il richiamo dei fasti perduti sembra rodergli. Comunque era una persona molto lucida. Non aveva la stoffa dell’avventuriero e lo sapeva. Lavorerà per quasi trent’anni come impiegato al Terzo Ciclo di Irrigazione ad Alessandria. È questo che mi ha sempre attirato in lui: il suo essere riservato, timido, incapace di fare grandi passi e ribellarsi contro una vita mediocre, ma al contempo bruciare al suo interno di grandi passioni.
Cosa resta della notte delinea il modo in cui la poesia può connaturare l’esistenza, il rapporto tra arte e vita, in un momento di grandi cambiamenti per Kavafis, che trovano riflesso nel verso, nella necessità di una reale trasformazione.
Se si leggono le poesie scritte  da Kavafis prima del 1897, ad eccezione di Mura e di poche altre, si tratta per la maggior parte di poesie deboli, incompiute. Solo dopo questa data sarebbe arrivato a scrivere quelle poesie che lo avrebbero reso riconoscibile facendolo diventare il poeta Kavafis. Ha compiuto un enorme salto qualitativo nel giro di pochi anni. Ma questi salti non accadono così per caso, per miracolo. Dietro ci sono tanti sforzi abortiti, tante delusioni, tanta rabbia, tanti fogli bruciati e riscritti.
Tra le parole fondamentali del romanzo, assume un ruolo di assoluto rilievo l’abbandono, nel marcato riferimento a Plutarco. Che peso assume il suo significato per Kavafis in relazione alla necessità di lasciare ciò che si ha amato anche a costo di “cancellare l’adorata voluttà”?
Sarà proprio quel passo di Plutarco a ispirare, alcuni anni più tardi, la composizione della poesia Il Dio abbandona Antonio. “[..]Come pronto da tempo, come un prode/ salutala Alessandria che dilegua./ Non t’illudere più, non dire: “è stato/ un sogno”, oppure “s’ingannò l’udito”: non piegare a così vuote speranze[..]”. Risiede in questo il riferimento: la capacità di trovare la forza di abbandonare.
Tra le immagini del romanzo è riconoscibile il protagonista della poesia Un vecchio, e al pari di quell’uomo che osserva i passanti, Kavafis prova nostalgia per un tempo altro, per un’idea di amore e fanciullezza che confluiscono in una sorta di paura esistenziale, di incertezza continua che avrebbe poi affrontato, tra le altre, anche in poesie come A mente chiara (“[..] Giovinezza corrotta fu matrice/ per me delle poetiche mie vie/ e alla mia Téchne un tratto/ inestinguibile impresse [..]”). Che forma assume la nostalgia in relazione al suo rapporto col tempo?
Mi diverte molto questo passaggio del romanzo dove Kavafis prova nostalgia per la nostalgia. Si immagina vecchio, quando tutti i piaceri fisici che si poteva procurare a Parigi diventano inaccessibili. Un lontano ricordo. Desidera che le cose di cui potrebbe godere in quel momento, un bel corpo maschile, l’amore come lo intende lui – di cui godere se non fosse così codardo – diventano irraggiungibili, inafferrabili, in modo da poterle assaporare solo con la forza del ricordo e dell’arte. Kavafis qui guarda il futuro e parla del presente. È vecchio e giovane. Sperimenta con se stesso. Nelle sue poesie scrive del passato, ma illumina il nostro presente – il suo sguardo può abbracciare tutto, passato e futuro – per questo continua a essere più attuale che mai.

mercoledì 12 giugno 2019

Mostra di Skida



Presso la Libreria Ponchielli, in p. S. A. M. Zaccaria 10, fino a sabato 29 giugno sarà visitabile la nuova esposizione di Mario Giuseppe Spadari: Ciclisti.
L'artista, dedicando questa mostra alla memoria dell'amico Franco Priori, espone quattro sculture e sedici acquerelli, nei quali l'epicità dei ciclisti trova forma nelle linee del movimento e nella dinamica dei colori.
Non si tratta di celebrare la vittoria, non è questo solamente un omaggio al campione. Si tratta invece di riuscire a cogliere con il colore i corpi piegati e i paesaggi che diventano una unità, che sudando ci parlano di sforzo, di fatica e di gioia.
Immersi in un movimento continuo.
Ritorna anche in questa esposizione la figura del Crocifisso, cara all'artista già noto per la propria scultura che ha vegliato sulla Punta Cristo di Spinadesco e che, recuperata dalle spiagge del Po, è stata appena ricollocata nella sua posizione. Il Cristo, figura esultante nel sacrificio, accompagna la fatica del ciclista e della storia dell'uomo di carne perché, ci dice Spadari: “il ciclista, in fondo alla salita, è già morto"

Aspettandovi


mercoledì 5 giugno 2019

Working class: gli eroi del nuovo millennio

 Ringraziando "L'indice" e Claudio Panella, autore di questo articolo







Nella sua introduzione all’edizione italiana del romanzo Strada sdrucciolevole (Einaudi, 1977) di Max von der Grün, Cesare Cases scriveva: “Sempre mal vista e anatemizzata anche da molta sinistra, la letteratura operaia è dura a morire. Le ragioni della condanna possono essere molte e valide ed esse sembrano essere confermate dall’esperienza, che è una conferma decisiva, poiché, come dice il detto inglese caro ad Engels, la prova del pudding sta nel mangiarlo. Il pudding della letteratura operaia non ha buon sapore. Resta il fatto che la classe operaia esiste e che nessuno ne contesta l’importanza, anche se non è convinto che essa sia – o sia ancora – il soggetto potenziale di una rivoluzione atta a por fine ad ogni sfruttamento dell’uomo sull’uomo. E resta il fatto che nella produzione letteraria occidentale, almeno quantitativamente gigantesca, non se ne parla quasi mai”.
Nel romanzo citato, l’ex-minatore Grün racconta la storia di un operaio spinto a rivoltarsi contro le norme di buona condotta imposte alla sua classe dalla scoperta che le riunioni sindacali dei suoi compagni vengono spiate dalla direzione. Da più di un secolo, la letteratura stessa ha rappresentato un terreno di conflitto tra assimilazione e resistenza ai codici borghesi degli scrittori provenienti dalle fila del proletariato. Lo stesso Grün alternava libri di inchiesta a romanzi, convinto che per comunicare con la classe operaia che si stava sempre più imborghesendo e con la borghesia proletarizzata o solidale con i lavoratori bisognasse appropriarsi di ogni mezzo di produzione letteraria, compresi quelli tradizionalmente preclusi al proletariato. Negli ultimi anni, si è diffusa anche in Italia una nuova letteratura narrativa che gioca consapevolmente con le forme del romanzo e del memoir per usarle in modo da promuovere un contro-discorso antitetico a quello dominante sul destino delle lotte operaie del secolo scorso e di quelle a noi contemporanee. Con in più l’obiettivo di offrire ai lettori un pudding servito a regola d’arte, gustoso anche quando il suo sapore è dolceamaro.
Tale proposito è esplicitamente alla base di una collana inaugurata pochi mesi fa dall’editore Alegre e dal nome che è tutto un programma: “Working class”. A curarla è lo scrittore Alberto Prunetti, già autore di Amianto. Una storia operaia (Alegre, 2014) e di 108 metri. The new working class hero (Laterza, 2018). Se nel primo titolo egli aveva saputo raccontare in modo documentato ma narrativamente articolato la morte del padre Renato, ammalatosi per l’esposizione a fibre di asbesto, e la propria personale esperienza di traduttore e letterato precario, il secondo romanzo dà voce agli emigranti italiani che lavorano nelle latrine e nelle cambuse del Regno Unito neoliberale post-thatcheriano, con un piglio narrativo degno di Stevenson e un pastiche linguistico sorprendente. Difatti, il manifesto della nuova collana redatto da Prunetti annuncia la pubblicazione di testi firmati da chi ha vissuto esperienze di lotta e di lavoro ma che riescono ad “andare oltre il racconto testimoniale e vittimario” concludendosi con questa dichiarazione d’intenti: “Continueremo a spingere le scritture operaie sulla montagna dell’industria editoriale, un passo alla volta, in salita. È un lavoro da titani. È il lavoro di Sisifo. Ma nessuno può farlo meglio di noi. (Bisogna immaginare Sisifo felice)”.







I primi titoli disponibili della serie “Working class” sono Ruggine, meccanica e libertà (2018) di Valerio Monteventi e la nuova edizione del piccolo classico Figlia di una vestaglia blu (2019) di Simona Baldanzi. Monteventi, figlio di militanti comunisti emiliani, negli anni settanta volle fortemente diventare operaio trascorrendo più di dieci anni tra le linee di produzione della Ducati, da delegato di reparto, e nel 1980 subì pure una carcerazione preventiva di un anno prima d’essere prosciolto da un’accusa inconsistente di fiancheggiamento a gruppi terroristi. Nel suo romanzo autobiografico, i quaderni scritti in prigione riemergono alla vigilia di una delle iniziative sociali intraprese dal narratore ormai ex-operaio, un corso di meccanica per i detenuti della casa circondariale Dozza di Bologna, occasione di apprendere con un mestiere anche l’etica e la libertà di un lavoro d’officina di segno diverso da quello iper-sfruttato dal neoliberismo attuale.
[...]

C. Panella è dottore di ricerca in letterature comparate
Fotografie di  Ian Beesley

Orari estivi

Orario estivo

lunedì: h 16.00-20.00

da martedì a sabato:

h. 9.30-13.00 h.16.00-20.00


domenica chiuso