venerdì 30 giugno 2017
martedì 27 giugno 2017
Walter Benjamin, Strada a senso unico
lunedì 26 giugno 2017
sabato 24 giugno 2017
Gottfried Benn, La nuova stagione letteraria, Adelphi 2017
"... quelle misteriose "genti degli scafi forestieri" le cui barche sono state ritrovate anche nelle raffigurazioni dei più antichi monumenti della civiltà mesopotamica, poi destinate a scomparire senza lasciare traccia. Io credo però che non siano scomparse, quelle arcane "genti degli scafi forestieri" : esse hanno continuato ad avanzare attraverso i millenni e i popoli, preservando fino ai nostri giorni la massa ereditaria della visione primigenia.... Nessuna conoscenza certa, nessuna dimostrabilità dell'esistenza. Indegna di qualsiasi sguardo e di sorrisi, la realtà: quella costrutta e affermata da un'umanità ciilizzatrice... L'anima possiede altre tendenze...al ritorno alla massa ereditaria, ai sogni, agli abbeveratoi del suo sangue antico."
giovedì 22 giugno 2017
Show, Giorgio Caproni
Guardateli bene in faccia.
Guardateli.
Alla televisione,
magari, in luogo
di guardar la partita.
Son loro, i "governanti".
Le nostre "guide".
I "tutori"
-eletti-della nostra vita.
Guardateli.
Ripugnanti.
Sordidi fautori
dell'"ordine", il limo
del loro animo tinge
di pus la sicumera
dei lineamenti.
Sono
(ben messi!) i nostri
illibati Ministri.
Sono i Senatori.
I sinistri
-i provvidi!-Sindacalisti.
"Lottano" per il bene
del Paese.
Contro i Terroristi
e la Mafia.
Loro,
che dentro son più tristi
dei più tristi eversori.
Arrampichini.
Arrivisti.
In nome del Popolo (Avanti!
Sempre Avanti), in perfetta
Unità arraffano
capitali-si fabbricano
ville.
Investono
all'estero, mentre "auspicano"
(Dio, quanto auspicano!)
pace e giustizia.
Loro,
i veri seviziatori
della Giustizia in nome
(sempre, sempre in nome!)
del Dollaro e dell'Oro.
Guardateli, i grandi attori:
i guitti.
Degni
-tutti- dei loro elettori.
Proteggono i Valori
(in Borsa!) e le Istituzioni...
Ma cosa si nasconde
dietro le invereconde
Maschere?
Il Male
che dicono di combattere?...
Toglieteceli davanti.
Per sempre.
Tutti quanti.
Guardateli.
Alla televisione,
magari, in luogo
di guardar la partita.
Son loro, i "governanti".
Le nostre "guide".
I "tutori"
-eletti-della nostra vita.
Guardateli.
Ripugnanti.
Sordidi fautori
dell'"ordine", il limo
del loro animo tinge
di pus la sicumera
dei lineamenti.
Sono
(ben messi!) i nostri
illibati Ministri.
Sono i Senatori.
I sinistri
-i provvidi!-Sindacalisti.
"Lottano" per il bene
del Paese.
Contro i Terroristi
e la Mafia.
Loro,
che dentro son più tristi
dei più tristi eversori.
Arrampichini.
Arrivisti.
In nome del Popolo (Avanti!
Sempre Avanti), in perfetta
Unità arraffano
capitali-si fabbricano
ville.
Investono
all'estero, mentre "auspicano"
(Dio, quanto auspicano!)
pace e giustizia.
Loro,
i veri seviziatori
della Giustizia in nome
(sempre, sempre in nome!)
del Dollaro e dell'Oro.
Guardateli, i grandi attori:
i guitti.
Degni
-tutti- dei loro elettori.
Proteggono i Valori
(in Borsa!) e le Istituzioni...
Ma cosa si nasconde
dietro le invereconde
Maschere?
Il Male
che dicono di combattere?...
Toglieteceli davanti.
Per sempre.
Tutti quanti.
martedì 20 giugno 2017
Franca Cavagnoli, James Joyce
Riportiamo parte di un articolo pubblicato sul Il Piccolo, quotidiano di Trieste.
Intervista a Franca Cavagnoli.
Quali sono gli strumenti di cui necessita oggi un traduttore per trasporre nella propria lingua un gigante come Joyce?
«Un bagaglio di vaste letture sull’autore e la sua opera, buoni dizionari, bilingui e monolingui, come A Dictionary of Hiberno-English. E poi c'è la rete, per cui è più facile comprendere come vengono usati certi colloquialismi di Dublino, o capire, anche grazie alle immagini, com’è fatto ad esempio un certo portico o una certa carrozza».
Un ritratto dell'artista da giovane è una guida all'insurrezione contro ogni ordine stabilito. Pensa che sia uno di quei libri che – soprattutto a un giovane lettore – può cambiare la vita?
«Ne sono convinta. In questi mesi ho presentato la traduzione ad alcuni gruppi di liceali. È stata un’esperienza molto bella. Hanno fatto domande interessanti, erano partecipi. Ne sono stata particolarmente felice perché Un ritratto dell’artista da giovane è stato il romanzo fondamentale della mia adolescenza. Credo che la mia passione politica sia nata leggendo questo libro. Ne ho avuto la conferma lavorando alla traduzione: nelle settimane in cui traducevo il primo capitolo, alla fine della giornata avevo sempre qualche linea di febbre tanto intensamente rivivevo le emozioni di quel tempo, e così pure mentre traducevo le prediche di padre Arnall. Questo è anche il libro che mi ha aiutato nella mia crisi religiosa, facendomi prendere consapevolezza del fatto che avevo ormai perso la fede».
Nel libro ci sono riferimenti a Giordano Bruno. È forse lui il “vecchio artefice” a cui fa appello il giovane Stephen?
«La prima volta che la parola “artefice” compare nel testo è in rapporto a Dedalo, quando a Stephen pare di vedere una forma alta volare sopra le onde e adagio salire nell’aria. Anche la seconda volta è in rapporto a Dedalo, “il grande artefice di cui portava il nome”. Quando compare per la terza volta, alla fine del romanzo, si potrebbe pensare che sia di nuovo a lui che fa appello. Tuttavia, credo che il “vecchio padre” al quale l'autore chiede di “sorreggerlo” sia John Joyce, suo padre. Il romanzo inizia con la sua voce, con la voce del padre – non la voce della madre – che racconta al piccolo Stephen una storia. Il libro si chiude tracciando un cerchio perfetto: al momento del distacco, della partenza dall’Irlanda, è al padre, all’artefice della sua vita, che Stephen chiede di andare ora e sempre in suo soccorso».
Uno dei fili rossi di Un ritratto dell'artista da giovane è costruito attorno al termine “mormorio”. Lo troviamo ad esempio nella descrizione del primo incontro con la prostituta. Cos'è questo mormorio che tanto ossessiona Stephen?
«Anche nel descrivere Stephen da bambino Joyce ricorre più volte alla parola “mormorio” o al verbo e agli aggettivi che da essa derivano. Se pensiamo che “mormorare” si dice soprattutto delle acque che scorrono o delle onde che lambiscono la riva e del rumore del vento tra le fronde, si potrebbe pensare che sia legato a qualcosa di inafferrabile, di fluido. E tutto questo è molto joyciano. E' inoltre una parola con un suono bellissimo, che racchiude una consonanza felice. Anche in Giacomo Joyce, la più triestina delle sue opere, essendo stata concepita, ambientata e scritta a Trieste, il gioco di allitterazioni, assonanze e consonanze è così vivo e palpitante, che il testo diventa comprensibile anche solo leggendolo/ascoltandolo a questo livello. Tradurlo per il piccolo editore milanese Henry Beyle è stata per me una vera festa – una festa mobile, come tutto è mobile, fluido, in Joyce».
Cosa intende Stephen quando dice che la sua missione è di “foggiare nella fucina dell'anima la coscienza increata della mia razza”?
«Naturalmente è una frase aperta all’interpretazione. Credo che intenda che si accinge a dare forma alla coscienza ancora informe della sua gente, del suo popolo, e lo farà nel luogo più riposto dentro di sé, quello più intimo, l’anima. Là dove non si può mentire, dove si è se stessi fino in fondo. Sarà lui a creare la coscienza del popolo irlandese e lo farà con la scrittura. È una dichiarazione di assunzione di responsabilità, in cui Stephen affonda le radici della sua etica di scrittore».
fonte articolo
Intervista a Franca Cavagnoli.
Quali sono gli strumenti di cui necessita oggi un traduttore per trasporre nella propria lingua un gigante come Joyce?
«Un bagaglio di vaste letture sull’autore e la sua opera, buoni dizionari, bilingui e monolingui, come A Dictionary of Hiberno-English. E poi c'è la rete, per cui è più facile comprendere come vengono usati certi colloquialismi di Dublino, o capire, anche grazie alle immagini, com’è fatto ad esempio un certo portico o una certa carrozza».
Un ritratto dell'artista da giovane è una guida all'insurrezione contro ogni ordine stabilito. Pensa che sia uno di quei libri che – soprattutto a un giovane lettore – può cambiare la vita?
«Ne sono convinta. In questi mesi ho presentato la traduzione ad alcuni gruppi di liceali. È stata un’esperienza molto bella. Hanno fatto domande interessanti, erano partecipi. Ne sono stata particolarmente felice perché Un ritratto dell’artista da giovane è stato il romanzo fondamentale della mia adolescenza. Credo che la mia passione politica sia nata leggendo questo libro. Ne ho avuto la conferma lavorando alla traduzione: nelle settimane in cui traducevo il primo capitolo, alla fine della giornata avevo sempre qualche linea di febbre tanto intensamente rivivevo le emozioni di quel tempo, e così pure mentre traducevo le prediche di padre Arnall. Questo è anche il libro che mi ha aiutato nella mia crisi religiosa, facendomi prendere consapevolezza del fatto che avevo ormai perso la fede».
Nel libro ci sono riferimenti a Giordano Bruno. È forse lui il “vecchio artefice” a cui fa appello il giovane Stephen?
«La prima volta che la parola “artefice” compare nel testo è in rapporto a Dedalo, quando a Stephen pare di vedere una forma alta volare sopra le onde e adagio salire nell’aria. Anche la seconda volta è in rapporto a Dedalo, “il grande artefice di cui portava il nome”. Quando compare per la terza volta, alla fine del romanzo, si potrebbe pensare che sia di nuovo a lui che fa appello. Tuttavia, credo che il “vecchio padre” al quale l'autore chiede di “sorreggerlo” sia John Joyce, suo padre. Il romanzo inizia con la sua voce, con la voce del padre – non la voce della madre – che racconta al piccolo Stephen una storia. Il libro si chiude tracciando un cerchio perfetto: al momento del distacco, della partenza dall’Irlanda, è al padre, all’artefice della sua vita, che Stephen chiede di andare ora e sempre in suo soccorso».
Uno dei fili rossi di Un ritratto dell'artista da giovane è costruito attorno al termine “mormorio”. Lo troviamo ad esempio nella descrizione del primo incontro con la prostituta. Cos'è questo mormorio che tanto ossessiona Stephen?
«Anche nel descrivere Stephen da bambino Joyce ricorre più volte alla parola “mormorio” o al verbo e agli aggettivi che da essa derivano. Se pensiamo che “mormorare” si dice soprattutto delle acque che scorrono o delle onde che lambiscono la riva e del rumore del vento tra le fronde, si potrebbe pensare che sia legato a qualcosa di inafferrabile, di fluido. E tutto questo è molto joyciano. E' inoltre una parola con un suono bellissimo, che racchiude una consonanza felice. Anche in Giacomo Joyce, la più triestina delle sue opere, essendo stata concepita, ambientata e scritta a Trieste, il gioco di allitterazioni, assonanze e consonanze è così vivo e palpitante, che il testo diventa comprensibile anche solo leggendolo/ascoltandolo a questo livello. Tradurlo per il piccolo editore milanese Henry Beyle è stata per me una vera festa – una festa mobile, come tutto è mobile, fluido, in Joyce».
Cosa intende Stephen quando dice che la sua missione è di “foggiare nella fucina dell'anima la coscienza increata della mia razza”?
«Naturalmente è una frase aperta all’interpretazione. Credo che intenda che si accinge a dare forma alla coscienza ancora informe della sua gente, del suo popolo, e lo farà nel luogo più riposto dentro di sé, quello più intimo, l’anima. Là dove non si può mentire, dove si è se stessi fino in fondo. Sarà lui a creare la coscienza del popolo irlandese e lo farà con la scrittura. È una dichiarazione di assunzione di responsabilità, in cui Stephen affonda le radici della sua etica di scrittore».
fonte articolo
Albin Lesky, Storia della letteratura greca:Finalmente ristampato per ilSaggiatore
Immagine di Pino Pascali |
venerdì 16 giugno 2017
giovedì 15 giugno 2017
mercoledì 14 giugno 2017
lunedì 12 giugno 2017
Perché il Pequod compare in Moby Dick solo dopo pagina 100?
Al Porte Aperte Festival, Sabato 1 Luglio, dalle ore 09.30, alla sede Arci di via Speciano, Alessio Torino sarà presente con il suo workshop intitolato Perché il Pequod compare in Moby Dick solo dopo pagina 100?.
Alessio Torino (Urbino, 1975) insegna letteratura latina all'Università di Urbino. Ha esordito nel 2010 per Pequod con il romanzo Undici decimi (Selezione Premio Campiello, Premio Bagutta Opera Prima). Per Minimum Fax ha poi pubblicato Tetano (2011), Urbino, Nebraska (2013) e Tina (2016). E’ direttore artistico del festival “Urbino Città del libro.”
Contenuto
“Può l’Odissea funzionare anche come manuale di scrittura creativa? Cosa
accomuna una tragedia greca a un racconto di Hemingway di cinque pagine? Perché
La leggenda del santo bevitore è il
migliore racconto di tutti i tempi?”
Per rispondere a queste domande
ci si scatenerà al workshop di narrazione tenuto da Alessio Torino che non ha
nessuna risposta certa tranne che per il racconto di Joseph Roth! La finalità
del workshop è che i frequentanti si chiedano un giorno, mentre portano fuori
il cane: com’è possibile che il Pequod compaia in Moby Dick solo dopo pagina 100 e tutto si regga lo stesso?
NB: Astenersi aspiranti scrittori che non hanno voglia di dedicare
tempo alle parole degli altri.
If you don’t have
the time to read, you don’t have the tools to write
(S. K.)
(S. K.)
Il docente
Alessio Torino (Urbino, 1975) insegna letteratura latina all'Università di Urbino. Ha esordito nel 2010 per Pequod con il romanzo Undici decimi (Selezione Premio Campiello, Premio Bagutta Opera Prima). Per Minimum Fax ha poi pubblicato Tetano (2011), Urbino, Nebraska (2013) e Tina (2016). E’ direttore artistico del festival “Urbino Città del libro.”
La tecnologia non è neutrale
Fuori controllo
La nozione manageriale di «accertamento tecnologico» è paragonabile
al tentativo di fermare un’automobile che sta per andare fuori strada
utilizzandone il manuale di manutenzione e di riparazione. L’efficienza
della tecnologia è in realtà inefficace. Ogni settore tecnico persegue i
propri scopi separato dalla totalità. Ogni struttura della macchina
cerca di mantenere il proprio potere e influenza.
Persino i difensori della tecnologia ammettono che tende a muoversi
fuori dal controllo umano. Alcuni fra loro attaccano la «tecnofobia»
dei suoi critici e centrano il problema sugli esseri umani che non hanno
ancora imparato a gestire le «libertà» che la tecnologia ci può donare.
La tecnologia è uno strumento che rende capaci, non un meccanismo
coercitivo — secondo i suoi apologeti — ed il vero problema è la
capacità umana di «gestirla». L’assurdità di questa affermazione è
evidente. La tecnologia ci ha dato la libertà di servirla, la scelta di
agire all’interno dell’ambito tecnologico. Essa è coercitiva perché è un ambiente, un ambiente che per esistere deve sopprimere tutti gli altri.
Uno scrittore favorevole alla tecnologia riporta una metafora
comune nella letteratura, quella della macchina che per la velocità
perde il controllo: «Se noi sembriamo essere spinti nel futuro da un
motore impazzito, può darsi che la principale ragione per cui ciò accade
è che non siamo stati capaci di imparare come funziona, né di guidarlo
nella direzione che vogliamo percorrere». Questa affermazione ne ricorda
un’altra di Lenin, che nel corso dell’ultimo congresso del partito cui
partecipò, nell’aprile 1922, disse che spesso aveva avuto la sensazione
sgradevole di essere l’autista che s’era improvvisamente accorto che la
sua automobile non si muoveva nella direzione da lui voluta. «Delle
potenti forze — dichiarò — deviano lo Stato sovietico dalla sua strada
originaria». Fra le forze più potenti, naturalmente, c’era l’ipnosi del
processo politico autoritario.
Analogamente, le stesse «potenti forze» dell’autoritarismo e
dell’ottimismo tecnologico sono all’opera oggi. Nella società
tecnologica, la tecnologia resterà al comando. Il «fattore umano» non
può venir programmato dai computer come misura protettiva contro il loro
potere su di noi; può solo soccombere. «L’automobile» è fuori
controllo. E noi?
Noi invece potremmo cominciare a demolire il mito che fa della
tecnologia qualcosa di sacro e irrevocabile. Imparare a ricatturare le
nostre abilità, diventare indipendenti dalla tecnologia, guardare il
mondo coi nostri occhi e non con lo schermo del computer. Potremmo
iniziare a rovesciare tutti i presupposti mai negati di questa civiltà,
impedire la distruzione del territorio, opporci al trionfo del
progresso, spegnere gli apparati di propaganda tecnologica e politica.
Intendiamoci, stiamo proponendo qualcosa che in nessun caso potrà
avvenire attraverso un programma politico e tecnologico.
[All’attacco della civiltà tecnologica, a cura degli Amici di Ned Ludd, Gratis, 1993]
sabato 10 giugno 2017
Questa notte la Libreria è aperta
Sulla Tecnologia stiamo ancora riflettendo,
Ma!
sulla Condivisione non abbiamo mai avuto dubbi.
Dunque:
in occasione della Notte bianca della Tecnologia,
la Libreria sarà aperta.
venerdì 9 giugno 2017
Junichiro Tanizaki, L'amore di uno sciocco, Nuovo Portico Bompiani 1987
martedì 6 giugno 2017
La storia della civile rampa della Libreria Il Pigneto
ABBIAMO BLOCCATO L'ABBATTIMENTO DELLA RAMPA. DA DOMANI INIZIERÀ IL PROCESSO DI LEGALIZZAZIONE CHE DURERÀ QUALCHE MESE. LA RAMPA NON SI ABBATTE, LA RAMPA RIMANE! RINGRAZIAMO ANCORA UNA VOLTA TUTTE E TUTTI PER IL GRANDE SOSTEGNO RICEVUTO. Di seguito il nostro comunicato: Un atto di civiltà Siamo stati ad un passo dall'abbattimento della rampa della libreria-caffè Lo Yeti. La legittimità della sua esistenza è stata derubricata dal governo del Municipio ad una questione amministrativa. Il Presidente Boccuzzi e il VicePresidente e Assessore alle Politiche Sociali Podeschi si sono dichiarati non competenti ad occuparsene, delegando gli uffici tecnici e amministrativi a dirimere la situazione kafkiana che si era creata. Al di là del nostro caso poteva essere per la nuova amministrazione l’occasione per occuparsi del problema dell'accessibilità in generale, che vede in questa città mortificare quotidianamente i diritti delle persone disabili. Siamo quindi andati ad incontrare gli attori dell'amministrazione municipale su cui è ricaduto l'onere di occuparsi della rampa dello Yeti. Almeno però abbiamo avuto a che fare con persone “reali” e competenti che, al di là degli obblighi derivanti dalle cariche che ricoprono, si sono messi al lavoro per cercare di sbrogliare la matassa. Adesso però per regolarizzare la situazione cui avremmo avuto diritto da più di dieci anni, dobbiamo seguire un iter che coinvolge più uffici e che probabilmente durerà qualche mese. Lo Yeti nel frattempo per vivere ha bisogno di lavorare, di poter accogliere le persone, di riavere al più presto i tavoli esterni su cui si basa la nostra economia nei mesi caldi e che non può avere un esito positivo finchè rimane aperto il contenzioso per la rampa. Attendere mesi significa salvare la rampa, ma creare ulteriori grossi problemi economici alla Cooperativa “Libera….mente!” che gestisce la libreria-caffè lo Yeti. L'alternativa allora è sempre quella: abbattere la rampa, metterne una amovibile da posizionare a richiesta e … pazienza se il lavoratore disabile non potrà più aprire da solo. Siamo stati ad un passo da questa “soluzione”. Invece no, non possiamo accettarlo. Come intitolava il quotidiano “il Manifesto” nel 2004 commentando la nostra rampa si tratta di “Un atto di civiltà”. In una città inaccessibile come è Roma, la rampa dello Yeti nei suoi 14 anni di vita ha permesso la partecipazione alle attività della nostra cooperativa, ai servizi della nostra libreria-caffe o più semplicemente di raggiungere il bagno accessibile o il fasciatoio a tante persone in carrozzina, passeggini per bambini, persone anziane o con mobilità ridotta, con semplicità, senza dover chiedere aiuto o perfavore. Tenere la rampa è un atto di civiltà, toglierla una grave sconfitta per tutti, non solo per noi. Non saremo noi ad abbatterla. Abbiamo comunicato la nostra decisione agli uffici municipali, abbiamo iniziato il percorso burocratico. Speriamo che già l'avvio formale del procedimento sia condizione sufficiente per riavere il suolo pubblico per i nostri tavolini e sedie su via Pesaro e superare così anche le difficoltà economiche. Ringraziamo tutti voi che ci avete frequentato in tutti questi anni, voi che in questo momento difficile ci siete stati vicino e ci avete supportato con la vostra presenza. A Voi soprattutto ma anche alla nostra legale, alla nostra architetta, alle persone sensibili che abbiamo conosciuto negli uffici del Municipio, diciamo un grande grazie. Speriamo di ricevervi presto a tutte e a tutti tra i nostri tavolini esterni. La rampa non si abbatte, la rampa rimane. |
Lo
Yeti è una bellissima libreria-caffè che dal 2003 sta a Roma in via Perugia,4
(www.loyeti.org)
|
Iscriviti a:
Post (Atom)