Il Castello di Zak è un ex spazio industriale abbandonato alla periferia
di Milano, divenuto negli anni un museo della Street Art conosciuto a
livello globale. L’artefice di questo museo è Zak, un “senza casa”
proveniente da una famiglia di Tunisi che negli anni ne è diventato il
custode portandolo a nuova vita, creando un luogo magico e unico,
divenuto nel tempo ritrovo per giovani poeti, spazio espositivo,
scenografia per video di cantanti rap, palestra di meditazione e
convegni yoga, sala concerti, spazio di espressione per ragazzi
autistici, set cinematografico e per fotografie di moda. Il fotografo
Giovanni Candida ci accompagna nei meandri di questo autentico tempio
della Street Art, alternando alle fotografie i pensieri e le storie di
Zak e degli artisti che hanno contribuito al suo successo.
mercoledì 27 novembre 2019
martedì 26 novembre 2019
lunedì 25 novembre 2019
"Con un occhio chiuso", Julian Barnes, Einaudi
"... e al gigantismo giocoso di certa Pop Art destinata, nel giudizio di Barnes, a invecchiare male e approdare a una senilità precoce e un tantino ridicola."
Oggi la libraia ha trovato sotto la porta questo breve testo estrapolato da una scheda di presentazione Einaudi: le righe che leggete qui sopra erano evidenziate e sotto c'era scritto:
"Non prendete questo libro.Viva la Pop Art!
Firmato
Saul
sabato 23 novembre 2019
info da Fahrenheit, rai tre. E' vera anche se non ci credete!
"Questo libro è per chi vorrebbe entrare in un libro, così da fermarsi in quelle pagine di mondo, per chi adora fare colazione con giornali, caffè e pasticciotti, per chi ha fatto di una scopa una chitarra cantando Come as your are dei Nirvana, e per chi ricorda la prima volta che ha provato paura per qualcun....."
Chissà cosa era successo a chi ha scritto questa introduzione a "Io sono la bestia".
Wendell Berry, La Rivoluzione del Contadino Impazzito
E' dal denaro ignorante che mi dichiaro
libero, dal denaro grasso
e sognante nelle sue somme, che ci porta
nelle vie dell'assenza,
disperdendo gli alberi dei pascoli
nel linguaggio deserto delle banche.
giovedì 21 novembre 2019
mercoledì 20 novembre 2019
martedì 19 novembre 2019
Insegnanti in prima fila per lo ius soli, Franco Lorenzoni ( da Internazionale che ringraziamo)
Insegnanti in prima fila per lo ius soli
Franco Lorenzoni, insegnante
19
novembre 2019
10.00
C’è un solo modo per festeggiare degnamente i trent’anni della Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza:
rilanciare con convinzione ed energia una mobilitazione civile e una
battaglia politica per garantire al più presto la cittadinanza al
milione di minorenni figli di immigrati residenti nel nostro paese.
La convenzione – ratificata dall’Italia il 27 maggio 1991 con la legge 176 – indica come precisa responsabilità degli stati quella di “applicare tutti i provvedimenti appropriati affinché il fanciullo sia effettivamente tutelato contro ogni forma di discriminazione”, rispettandone i diritti “senza distinzione di sorta e a prescindere da ogni considerazione di razza, colore, sesso, lingua, religione, opinione politica o altra del fanciullo o dei suoi genitori” (articolo 2). La legge dunque c’è, ma il diritto elementare di essere cittadini come i loro compagni di scuola in Italia non è garantito ai figli di immigrati che sono nati qui e ancor meno a coloro che sono arrivati nel nostro paese da piccoli.
Per questa settimana si stanno organizzando in tutta Italia tanti incontri, seminari, manifestazioni e flash mob nelle scuole e in luoghi pubblici, promosse da diverse amministrazioni comunali, insegnanti e associazioni che si occupano dell’infanzia. Save the children ha convocato manifestazioni in 22 città, da Aosta a Palermo, da Trieste a Potenza per la tutela dei diritti dei minori, contro la dispersione scolastica e le povertà educative.
Il tavolo Saltamuri, che raggruppa 133 associazioni, ha preparato un vademecum contro ogni discriminazione nella scuola e non solo, che i sindaci di Palermo, Napoli e altre città stanno diffondendo negli uffici comunali e nelle scuole.
Classi mondo
Due anni fa più di diecimila docenti hanno aderito a due giornate di sciopero della fame, dando vita a un movimento di “insegnanti per la cittadinanza”. Erano le settimane convulse di fine legislatura e i senatori del centrosinistra non ebbero volontà, coraggio e convinzione sufficienti per approvare la legge sullo ius soli, già votata alla camera e rimasta incredibilmente ferma per due anni.
Allora mi colpì il fatto che in quella campagna, accanto a numerosi docenti con radicate convinzioni politiche, ce ne fossero tanti che aderivano con motivazioni più intime e personali, legate al carattere del nostro mestiere. Se ogni mattina guardiamo negli occhi bambine e bambini delle più diverse provenienze, ragazze e ragazzi le cui famiglie sono arrivate qui da lontano e crediamo con convinzione che la scuola sia il primo luogo pubblico dove sperimentare l’arte del convivere, è evidente che per noi la dignità di ciascuno è al primo posto e in qualche modo, nelle nostre classi, costruiamo giorno per giorno una sorta di piccola cittadinanza, che rende uguali tutti i nostri allievi e li sostiene nell’apprendimento.
Come documenta con precisione Vinicio Ongini nella sua recente Grammatica dell’integrazione in tante e tanti abbiamo sperimentato negli ultimi decenni quanto le classi disomogenee, pur richiedendo forte impegno e una buona dose di flessibilità e inventiva, dischiudano potenzialità sorprendenti. Insegnare in queste “classi mondo” è una grande opportunità per noi docenti e stimola i più persuasi a ricerche e innovazioni didattiche coinvolgenti perché è a partire da qui che possiamo coltivare l’ambizione di dare il nostro piccolo contributo alla costruzione di un futuro meno distruttivo.
Lavorare e dimostrare che tra diversi si può crescere e imparare di più aiuta a contrastare la spinta segregazionista di troppe famiglie italiane, che sempre di più allontanano i propri figli da scuole dove ci sono tante ragazze e ragazzi figli di immigrati. L’unica possibilità sta nel trasformare queste scuole nei migliori luoghi educativi dove ricercare e sperimentare, come fecero nel secolo scorso Ovide Decroly, Janusz Korczak e Maria Montessori, fondando scuole capaci di integrare i più fragili, dove furono fatte scoperte che illuminarono l’educazione di tutti.
Le iniziative
Le iniziative in campo sono le più diverse. Il 20 novembre nell’istituto comprensivo Scarpa di Milano le insegnanti hanno organizzato per le terze, quarte e quinte classi della primaria la partecipazione a un’animazione proposta dagli operatori del Servizio missionario giovani (Sermig) di Torino, che dal 1964 si batte contro la fame nel mondo. I quasi sessanta bambini delle tre classi pescheranno bandierine di paesi di cinque continenti e sarà il destino a separarli: i più dovranno stare seduti a terra e accontentarsi di mangiare qualche arachide o una ciotola di riso, mentre solo sette potranno sedersi a una tavola imbandita, ricca di cibo così abbondante da avanzare. Una rappresentazione plastica della ripartizione diseguale di cibo nel mondo, vissuta in prima persona. Una provocazione che offrirà argomenti e dati per discutere intorno alla Convenzione delle Nazioni Unite.
Il 16 novembre, il comune di Modena, per il quarto anno, ha proposto a tutti gli alunni di quinta della scuola primaria di partecipare a una cerimonia in piazza, dove il sindaco conferisce la cittadinanza simbolica a tutti i bambini e le bambine che frequentano l’ultimo anno delle elementari.
L’iniziativa di Modena, come quelle analoghe di altri comuni, è coinvolgente e, specie nei primi anni, ha commosso bambini e famiglie immigrate, ma per Paula Baudet Vivanco, fondatrice del movimento Italiani senza cittadinanza, non basta più. “Siamo stanchi di cittadinanze simboliche di cui non sappiamo che farci. Il piano simbolico non basta più se non è accompagnato da miglioramenti reali. L’incertezza continua a essere la costante della nostra vita perché, fin da piccoli, abbiamo dovuto affrontare i continui ostacoli che incontravano i nostri genitori sul rinnovo del permesso di soggiorno. Compiuti i diciott’anni si aspetta troppo a lungo l’accesso alla cittadinanza e non vi è mai certezza di ottenerla”, dice Baudet Vivanco.
La convenzione – ratificata dall’Italia il 27 maggio 1991 con la legge 176 – indica come precisa responsabilità degli stati quella di “applicare tutti i provvedimenti appropriati affinché il fanciullo sia effettivamente tutelato contro ogni forma di discriminazione”, rispettandone i diritti “senza distinzione di sorta e a prescindere da ogni considerazione di razza, colore, sesso, lingua, religione, opinione politica o altra del fanciullo o dei suoi genitori” (articolo 2). La legge dunque c’è, ma il diritto elementare di essere cittadini come i loro compagni di scuola in Italia non è garantito ai figli di immigrati che sono nati qui e ancor meno a coloro che sono arrivati nel nostro paese da piccoli.
Per questa settimana si stanno organizzando in tutta Italia tanti incontri, seminari, manifestazioni e flash mob nelle scuole e in luoghi pubblici, promosse da diverse amministrazioni comunali, insegnanti e associazioni che si occupano dell’infanzia. Save the children ha convocato manifestazioni in 22 città, da Aosta a Palermo, da Trieste a Potenza per la tutela dei diritti dei minori, contro la dispersione scolastica e le povertà educative.
Il tavolo Saltamuri, che raggruppa 133 associazioni, ha preparato un vademecum contro ogni discriminazione nella scuola e non solo, che i sindaci di Palermo, Napoli e altre città stanno diffondendo negli uffici comunali e nelle scuole.
Classi mondo
Due anni fa più di diecimila docenti hanno aderito a due giornate di sciopero della fame, dando vita a un movimento di “insegnanti per la cittadinanza”. Erano le settimane convulse di fine legislatura e i senatori del centrosinistra non ebbero volontà, coraggio e convinzione sufficienti per approvare la legge sullo ius soli, già votata alla camera e rimasta incredibilmente ferma per due anni.
Allora mi colpì il fatto che in quella campagna, accanto a numerosi docenti con radicate convinzioni politiche, ce ne fossero tanti che aderivano con motivazioni più intime e personali, legate al carattere del nostro mestiere. Se ogni mattina guardiamo negli occhi bambine e bambini delle più diverse provenienze, ragazze e ragazzi le cui famiglie sono arrivate qui da lontano e crediamo con convinzione che la scuola sia il primo luogo pubblico dove sperimentare l’arte del convivere, è evidente che per noi la dignità di ciascuno è al primo posto e in qualche modo, nelle nostre classi, costruiamo giorno per giorno una sorta di piccola cittadinanza, che rende uguali tutti i nostri allievi e li sostiene nell’apprendimento.
Come documenta con precisione Vinicio Ongini nella sua recente Grammatica dell’integrazione in tante e tanti abbiamo sperimentato negli ultimi decenni quanto le classi disomogenee, pur richiedendo forte impegno e una buona dose di flessibilità e inventiva, dischiudano potenzialità sorprendenti. Insegnare in queste “classi mondo” è una grande opportunità per noi docenti e stimola i più persuasi a ricerche e innovazioni didattiche coinvolgenti perché è a partire da qui che possiamo coltivare l’ambizione di dare il nostro piccolo contributo alla costruzione di un futuro meno distruttivo.
Lavorare e dimostrare che tra diversi si può crescere e imparare di più aiuta a contrastare la spinta segregazionista di troppe famiglie italiane, che sempre di più allontanano i propri figli da scuole dove ci sono tante ragazze e ragazzi figli di immigrati. L’unica possibilità sta nel trasformare queste scuole nei migliori luoghi educativi dove ricercare e sperimentare, come fecero nel secolo scorso Ovide Decroly, Janusz Korczak e Maria Montessori, fondando scuole capaci di integrare i più fragili, dove furono fatte scoperte che illuminarono l’educazione di tutti.
Le iniziative
Le iniziative in campo sono le più diverse. Il 20 novembre nell’istituto comprensivo Scarpa di Milano le insegnanti hanno organizzato per le terze, quarte e quinte classi della primaria la partecipazione a un’animazione proposta dagli operatori del Servizio missionario giovani (Sermig) di Torino, che dal 1964 si batte contro la fame nel mondo. I quasi sessanta bambini delle tre classi pescheranno bandierine di paesi di cinque continenti e sarà il destino a separarli: i più dovranno stare seduti a terra e accontentarsi di mangiare qualche arachide o una ciotola di riso, mentre solo sette potranno sedersi a una tavola imbandita, ricca di cibo così abbondante da avanzare. Una rappresentazione plastica della ripartizione diseguale di cibo nel mondo, vissuta in prima persona. Una provocazione che offrirà argomenti e dati per discutere intorno alla Convenzione delle Nazioni Unite.
Il 16 novembre, il comune di Modena, per il quarto anno, ha proposto a tutti gli alunni di quinta della scuola primaria di partecipare a una cerimonia in piazza, dove il sindaco conferisce la cittadinanza simbolica a tutti i bambini e le bambine che frequentano l’ultimo anno delle elementari.
L’iniziativa di Modena, come quelle analoghe di altri comuni, è coinvolgente e, specie nei primi anni, ha commosso bambini e famiglie immigrate, ma per Paula Baudet Vivanco, fondatrice del movimento Italiani senza cittadinanza, non basta più. “Siamo stanchi di cittadinanze simboliche di cui non sappiamo che farci. Il piano simbolico non basta più se non è accompagnato da miglioramenti reali. L’incertezza continua a essere la costante della nostra vita perché, fin da piccoli, abbiamo dovuto affrontare i continui ostacoli che incontravano i nostri genitori sul rinnovo del permesso di soggiorno. Compiuti i diciott’anni si aspetta troppo a lungo l’accesso alla cittadinanza e non vi è mai certezza di ottenerla”, dice Baudet Vivanco.
“Io, per esempio, scappata a sette anni con la mia famiglia dal Cile
di Pinochet, solo a 33 anni sono riuscita a diventare a pieno titolo
italiana, ottenendo una cittadinanza che mi fu rifiutata alla prima
richiesta”, aggiunge. “Il paradosso è che noi da piccoli ci troviamo a
soffrire per una situazione che non abbiamo scelto, e che ci costringe a
guardare con inquietudine al nostro futuro, perché è come se ci venisse
continuamente erosa la tranquillità necessaria a crescere serenamente,
la possibilità di stare sicuri con i piedi per terra nella nostra casa.
Varchiamo incerti i confini perché non abbiamo sempre garanzia di
ritorno, le nostre chiavi di rientro sono momentanee e soggette a
permessi e rinnovi, quando per esempio andiamo a trovare parenti,
partecipiamo a gare sportive o a gite scolastiche. Le leggi
sull’immigrazione e sulla cittadinanza sono peggiorate continuamente e
gli ultimi decreti voluti da Salvini
hanno rovesciato i faticosi e complessi processi di accoglienza e di
soggiorno che, pur tra luci e ombre, avevano attivato in diversi luoghi
interessanti processi di integrazione, rovesciandoli in una
disintegrazione che causa più isolamento e solitudine, gettando noi e le
nostre famiglie nella precarietà e nell’insicurezza”.
È importante riprendere la lotta per la cittadinanza a tutti i minorenni figli di immigrati o nati in Italia da genitori stranieri e di nuovo, in questa mobilitazione, noi insegnanti possiamo giocare un ruolo di rilievo per la nostra particolare collocazione nella società, perché sappiamo bene di cosa si sta parlando. A questo proposito servono alcune considerazioni. Lo ius culturae non può essere considerato come una sorta di premio, che in alcune formulazioni palesemente incostituzionali sarebbe perfino revocabile. Non si diventa cittadini a pieno titolo perché si va bene a scuola, ma essere riconosciuti cittadini a pieno titolo è piuttosto una delle condizioni per andare bene a scuola. Non dimentichiamoci infatti che la dispersione scolastica dei figli di immigrati oggi è al 35 per cento, il doppio rispetto a quella degli italiani con cittadinanza.
C’è una lunga strada da fare, dunque, ed è bene che chi insegna se ne faccia carico in prima persona perché ha molto a che vedere con il mestiere dell’educare.
È importante riprendere la lotta per la cittadinanza a tutti i minorenni figli di immigrati o nati in Italia da genitori stranieri e di nuovo, in questa mobilitazione, noi insegnanti possiamo giocare un ruolo di rilievo per la nostra particolare collocazione nella società, perché sappiamo bene di cosa si sta parlando. A questo proposito servono alcune considerazioni. Lo ius culturae non può essere considerato come una sorta di premio, che in alcune formulazioni palesemente incostituzionali sarebbe perfino revocabile. Non si diventa cittadini a pieno titolo perché si va bene a scuola, ma essere riconosciuti cittadini a pieno titolo è piuttosto una delle condizioni per andare bene a scuola. Non dimentichiamoci infatti che la dispersione scolastica dei figli di immigrati oggi è al 35 per cento, il doppio rispetto a quella degli italiani con cittadinanza.
C’è una lunga strada da fare, dunque, ed è bene che chi insegna se ne faccia carico in prima persona perché ha molto a che vedere con il mestiere dell’educare.
sabato 16 novembre 2019
Luigina Mortari, Maria Zambrano e l'ambiguità delle rappresentazioni
Professoressa Mortari, è certa che questa immagine rappresenti o anche solo suggerisca la profondità del suo lavoro?
mercoledì 13 novembre 2019
martedì 12 novembre 2019
Volevamo Baudelaire
SG: "C'è gente che è
morta senza essere cresciuta. Noi siamo cresciuti perché non abbiamo
avuto l'aiuto dei genitori dei preti dei comunisti dei professori. Non
volevamo nessuno sulla testa. Volevamo Baudelaire"
... questa l'ha detta il nostro amico Sergio, anni novanta. A noi è piaciuta molto
... questa l'ha detta il nostro amico Sergio, anni novanta. A noi è piaciuta molto
"Un amore di biblioteca",una mappa desiderante di Paul B. Preciado, da Internazionale che ringraziamo
Un amore di biblioteca
5
ottobre 2019
09.47
Settembre è un buon mese. È il momento in cui i nuovi libri, come
dei cuccioli nati all’inizio dell’estate, escono per la prima volta a
giocare all’aria aperta, con i loro cuscinetti morbidi e le loro costole
brillanti. Le librerie si riempiono di questi corpi sconosciuti. Alcuni
arriveranno nelle case, faranno parte di una biblioteca, si sdraieranno
in letti sconosciuti. I libri sono, come i virus, entità intermedie tra
l’oggetto e l’essere vivente.
Una biblioteca è una biografia materiale, scritta con le parole d’altri, frutto dell’accumulazione e dell’ordine dei diversi libri che qualcuno ha letto nel corso della sua vita. Ma ai libri letti vanno aggiunti i libri che si possiedono senza averli letti, quelli che riposano sugli scaffali o che attendono sui tavoli, ma non sono mai stati aperti né esplorati con lo sguardo. In una biografia i libri non letti sono degli indicatori di desideri frustrati, di desideri passeggeri, di amicizie mandate in frantumi, di vocazioni insoddisfatte, di depressioni segrete che si nascondono dietro l’apparenza di un sovraccarico di lavoro o di mancanza di tempo. Sono talvolta delle maschere che il falso lettore indossa per emettere dei segnali letterari volti a suscitare la simpatia o la complicità degli altri lettori. Altre volte, come su una pagina Instagram, contano solo la copertina, il nome dell’autore o persino il titolo di un libro. I libri non letti sono una riserva d’avvenire, dei brani concentrati di tempo, che indicano una direzione che la vita avrebbe potuto prendere ma che non ha preso, o che potrebbe ancora prendere.
Ogni relazione amorosa lascia dietro di sé una biografia, come una sorta di traccia o di eredità nella quale si segnalano i libri che ogni amante ha portato all’altro. Allo stesso modo si potrebbe dire che qualsiasi relazione possiede la sua bibbia, il suo libro sacro, il libro attraverso il quale un amore o una delusione amorosa si raccontano. L’intensità e il grado di realizzazione di un amore possono essere misurati dall’impatto che la relazione amorosa ha avuto sulla nostra biblioteca personale.
Frontiere abbattute
Con l’amante con cui ho vissuto più a lungo, abbiamo finito per formare una biblioteca di oltre cinquemila volumi, unendo i nostri libri e aggiungendone ogni giorno. Anche se sono più di quattro anni che ci siamo separati come coppia romantica (secondo le convenzioni borghesi e patriarcali che regolano ancora quella che socialmente viene intesa come coppia), non siamo mai riusciti a separare i nostri libri. Virginie e io veniamo da due mondi diversi o, per essere più precisi, avevamo due biblioteche radicalmente eterogenee prima di amarci. La sua era composta da un migliaio di libri sulla cultura musicale e il punk rock, di cui una buona parte in inglese, mescolati a una buona collezione di letteratura americana e a una selezione specializzata di romanzi polizieschi in francese. La mia era andata componendosi dal mio passaggio nelle istituzioni universitarie di tre paesi diversi, dai gesuiti alla New School for Social Research, passando da Princeton e dalla Ecole des hautes études en sciences sociales. Era una biblioteca piuttosto noiosa e da studioso, in tre lingue, che riuniva i classici greci e latini, la storia dell’architettura e della tecnologia, oltre che della filosofia francese, e dove solo cinquecento titoli circa del femminismo, della teoria queer e anticoloniale turbavano la pace canonica del pensiero occidentale.
Il nostro amore ha dapprima provocato lo scambio di qualche libro tra le nostre rispettive biblioteche. Forse tutto è cominciato con la migrazione di Il corpo lesbico di Monique Wittig che, dalla mia biblioteca, ha trovato un luogo ideale, nella sua, tra Albertine Sarrazin e Goliarda Sapienza. Poi è stata la volta del contrabbando del suo Ellroy e del suo Calaferte, che hanno affilato le proprie pagine per aprirsi un varco nella mia biblioteca tra Hobbes e Leibniz. Poi è avvenuto il glorioso incontro tra la sua Lydia Lunch e la mia Valerie Solanas. Quindi l’evasione del suo Baldwin verso la mia biblioteca, dove ha trovato posto accanto ad Angela Davis e bell hooks. È stato come se le frontiere politiche stabilite da ciascuna delle due biblioteche cadessero di fronte al fascino dei libri dell’altro.
Una biblioteca è una biografia materiale, scritta con le parole d’altri, frutto dell’accumulazione e dell’ordine dei diversi libri che qualcuno ha letto nel corso della sua vita. Ma ai libri letti vanno aggiunti i libri che si possiedono senza averli letti, quelli che riposano sugli scaffali o che attendono sui tavoli, ma non sono mai stati aperti né esplorati con lo sguardo. In una biografia i libri non letti sono degli indicatori di desideri frustrati, di desideri passeggeri, di amicizie mandate in frantumi, di vocazioni insoddisfatte, di depressioni segrete che si nascondono dietro l’apparenza di un sovraccarico di lavoro o di mancanza di tempo. Sono talvolta delle maschere che il falso lettore indossa per emettere dei segnali letterari volti a suscitare la simpatia o la complicità degli altri lettori. Altre volte, come su una pagina Instagram, contano solo la copertina, il nome dell’autore o persino il titolo di un libro. I libri non letti sono una riserva d’avvenire, dei brani concentrati di tempo, che indicano una direzione che la vita avrebbe potuto prendere ma che non ha preso, o che potrebbe ancora prendere.
Ogni relazione amorosa lascia dietro di sé una biografia, come una sorta di traccia o di eredità nella quale si segnalano i libri che ogni amante ha portato all’altro. Allo stesso modo si potrebbe dire che qualsiasi relazione possiede la sua bibbia, il suo libro sacro, il libro attraverso il quale un amore o una delusione amorosa si raccontano. L’intensità e il grado di realizzazione di un amore possono essere misurati dall’impatto che la relazione amorosa ha avuto sulla nostra biblioteca personale.
Frontiere abbattute
Con l’amante con cui ho vissuto più a lungo, abbiamo finito per formare una biblioteca di oltre cinquemila volumi, unendo i nostri libri e aggiungendone ogni giorno. Anche se sono più di quattro anni che ci siamo separati come coppia romantica (secondo le convenzioni borghesi e patriarcali che regolano ancora quella che socialmente viene intesa come coppia), non siamo mai riusciti a separare i nostri libri. Virginie e io veniamo da due mondi diversi o, per essere più precisi, avevamo due biblioteche radicalmente eterogenee prima di amarci. La sua era composta da un migliaio di libri sulla cultura musicale e il punk rock, di cui una buona parte in inglese, mescolati a una buona collezione di letteratura americana e a una selezione specializzata di romanzi polizieschi in francese. La mia era andata componendosi dal mio passaggio nelle istituzioni universitarie di tre paesi diversi, dai gesuiti alla New School for Social Research, passando da Princeton e dalla Ecole des hautes études en sciences sociales. Era una biblioteca piuttosto noiosa e da studioso, in tre lingue, che riuniva i classici greci e latini, la storia dell’architettura e della tecnologia, oltre che della filosofia francese, e dove solo cinquecento titoli circa del femminismo, della teoria queer e anticoloniale turbavano la pace canonica del pensiero occidentale.
Il nostro amore ha dapprima provocato lo scambio di qualche libro tra le nostre rispettive biblioteche. Forse tutto è cominciato con la migrazione di Il corpo lesbico di Monique Wittig che, dalla mia biblioteca, ha trovato un luogo ideale, nella sua, tra Albertine Sarrazin e Goliarda Sapienza. Poi è stata la volta del contrabbando del suo Ellroy e del suo Calaferte, che hanno affilato le proprie pagine per aprirsi un varco nella mia biblioteca tra Hobbes e Leibniz. Poi è avvenuto il glorioso incontro tra la sua Lydia Lunch e la mia Valerie Solanas. Quindi l’evasione del suo Baldwin verso la mia biblioteca, dove ha trovato posto accanto ad Angela Davis e bell hooks. È stato come se le frontiere politiche stabilite da ciascuna delle due biblioteche cadessero di fronte al fascino dei libri dell’altro.
In seguito, quando siamo andati a vivere insieme, è avvenuta la
fusione delle due biblioteche. La riorganizzazione di tutte le serie, la
rottura del canone, lo sconvolgimento del repertorio, la perversione
dell’alfabeto. Derrida suonava meglio in compagnia di Philippe Garnier e
Laurent Chalumeau. Più tardi ha avuto luogo la metamorfosi: la
biblioteca ha cominciato a crescere con nuovi titoli nati
dall’inseminazione reciproca. Sono così apparsi scaffali interi di
Pasolini e Joan Didion, di June Jordan e Claudia Rankine, di Susan
Sontag ed Elfriede Jelinek. Poi Virginie ha imparato a parlare spagnolo e
sono arrivati, simili a nuovi organi, Roberto Bolaño, Osvaldo
Lamborghini, Pedro Lemebel, Diamela Eltit e Juan Villoro. La biblioteca
diventava un mostro davanti al quale potevamo passare ore a giocare come
bambini, aggiungendo un Achille Mbembe qui e un’Emma Goldman là,
osservando l’anatomia in mutazione di questo corpo di finzione. La
biblioteca comune era vivente e cresceva con noi.
La riproduzione che potremmo quasi definire sessuale delle nostre biblioteche ha reso impossibile la separazione dei loro libri quando abbiamo deciso di lasciarci e io di trasferirmi ad Atene. Questa è la prova che la nostra biblioteca comune era molto più solida della nostra coppia. Il nostro amore era un amore da libro. Non perché corrispondesse a un racconto romanzesco, né perché la sua natura fosse più fittizia che reale, ma perché ha unito i nostri libri in maniera più durevole e definitiva dei nostri corpi.
(Traduzione di Federico Ferrone)
La riproduzione che potremmo quasi definire sessuale delle nostre biblioteche ha reso impossibile la separazione dei loro libri quando abbiamo deciso di lasciarci e io di trasferirmi ad Atene. Questa è la prova che la nostra biblioteca comune era molto più solida della nostra coppia. Il nostro amore era un amore da libro. Non perché corrispondesse a un racconto romanzesco, né perché la sua natura fosse più fittizia che reale, ma perché ha unito i nostri libri in maniera più durevole e definitiva dei nostri corpi.
(Traduzione di Federico Ferrone)
sabato 9 novembre 2019
17.30Sala Giunchi
Primo piano MICROEDITORIA CHIARI, Domenica 10 novembre
ALDA MERINI. L’EROINA DEL CAOS
Di e con ANNARITA BRIGANTI. “Sarò brava, però non spolvero. Lei tolga la polvere alle farfalle e non volano più”. La storia di una “poeta”, una donna sopra le righe, attraverso aneddoti e ricordi di tanti amici, all’interno di un’attenta ricostruzione storica. Intervista a cura di Paolo Festa, presidente Ass. L’Impronta. (Durata 25’)venerdì 8 novembre 2019
SANDRO VERONESI E IL COLIBRì
" Marco Carrera, il protagonista del nuovo romanzo di Sandro Veronesi, è il colibrì. La sua è una vita di continue sospensioni ma anche di coincidenze fatali, di perdite atroci e amori assoluti. Sandro Veronesi, Il colibrì, La Nave di Teseo"
ARGH! si tratta di un'argh fatale
SOB! si tratta di un sob atroce
BASTA! si tratta di un basta assoluto
Nuovolibro di Concita
Dalla scheda di presentazione del nuovolibro di Concita De Gregorio :
"Una storia che è la nostra, quella dei nostri figli che provano a darsi un futuro. Lo faranno. Nel gioco del mondo, si perde solo quando si rinuncia a giocare. Marco - le tasche piene di tutto quello che manca - va e ci porta con sé. È magnifico tirare il sasso e saltare con lui."
Un lettore commenta questo risvolto di copertina:
"non potevo crederci, leggevo queste parole e non potevo credere che qualcuno avesse avuto il coraggio di scrivere delle banalità simili, non potevo credere alla mancanza di imbarazzo nello scrivere queste parole...Non potevo credere..."
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