Un festival che parla di uomini, ma non per celebrare gli uomini. È questa la sfida di “Hey Man! Un festival maschile imprevisto”, in programma dal 19 al 21 settembre alla Fabbrica del Vapore (Milano), promosso dall’associazione Mica Macho con l’Osservatorio Maschile
e il sostegno del Comune.
Tre giorni di incontri, workshop e spettacoli
per affrontare le maschilità contemporanee: contraddizioni, ombre e
possibilità di cambiamento.
Il cartellone è ampio: da talk con ospiti
come Gino Cecchettin, Adrian Fartade, Linus a momenti di autocoscienza maschile e discussioni su hikikomori, incel e consenso, fino a performance come il Book Drag Kings Show o “Essere un malessere. Frammenti di un tipico maschio italiano”. Non mancano le contaminazioni musicali con ospiti come Vegas Jones, Tommy Kuti, Nerone e Cuta.
La libraia non smetterà mai di amare Neri Pozza . Perchè Neri Pozza ha pubblicato e più volte e ancora e ancora "Il viaggiatore incantato" di Nikolaj Leskov , un incanto.
E ha fatto in modo,così, che non cadesse l'oblio su di lui.
Quando vi struggete e nessun libro vi salva, aprite queste pagine
Vienna, 1903. Al tavolo di un caffè va in scena un dialogo
impossibile tra la pensatrice femminista Lea Melandri e il filosofo
misogino e razzista Otto Weininger. È l’anno di uscita del suo Sesso e
carattere, scritto che avrà ampia risonanza tra pensatori come
Wittgenstein, Cioran, Musil, Joyce, Svevo, e che teorizza nero su bianco
che la donna è «soltanto materia», «assenza di senso». Pochi mesi dopo,
Otto Weininger, appena ventitreenne, si sparerà nella stessa stanza
d’albergo in cui era morto Beethoven. In Italia sarà Sibilla Aleramo
a leggere tra le prime Sesso e carattere e a diffonderlo, quando, a
ridosso della pubblicazione della prima traduzione italiana, nel 1912,
scriverà: «È un libro che desidero da molto tempo di leggere, perché
deve essere ciò che di più intelligente finora è stato scritto contro la
donna». Più di un secolo dopo, Lea Melandri vede in Weininger
l’intellettuale che meglio di tutti aveva dato voce con lucidità
visionaria alla Ragione su cui si era retta fino ad allora la civiltà
greco-romana e poi cristiana, da Platone a Kant; il primo a rendersi
conto che i «valori» in cui aveva creduto si stavano eclissando. Nella
breve parabola tragica del giovane filosofo viennese Melandri vede
incarnarsi il crepuscolo dell’Illuminismo: il lascito di un
intellettuale incapace di sfuggire all’annodamento tra il sessismo,
quale fondamento della Ragione classica, e la religione. Un immaginario
corpo a corpo che è anche un viaggio nel tempo alla scoperta delle
radici della cultura patriarcale, e dell’eredità che ancora le
sopravvive.
A lungo considerato un classico
underground per i toni crudi e i
contenuti sfacciatamente erotici,
Memorie di una beatnik (1969) è
un’autobiografia al confine tra storia e
invenzione, arte e pornografia,
confessione e fantasia. Con piglio
ironico e spietata lucidità, Diane di
Prima ripercorre una pagina cruciale
della cultura statunitense a partire dai
comportamenti e dalle vicissitudini
quotidiane dei suoi protagonisti.
New York, primi anni Cinquanta: Diane
ha diciotto anni quando abbandona
l’università e si trasferisce a
Manhattan, là dove il Lower East Side
si fa labirinto di miseria, rabbia e
bellezza. Il suo appartamento diventa
presto un punto d’incontro per amici,
artisti erranti e figure irregolari di ogni
sorta. Siamo in uno dei primi
esperimenti di vita collettiva, in uno
spazio di libertà assoluta, nel quale le
relazioni affettive, il sesso, le droghe,
ma anche la musica, la scrittura e la
creazione artistica vengono esplorati
con urgenza autentica e radicale.
Intorno a lei, nella città di Charlie
Parker e Miles Davis, assistiamo allo
sbocciare euforico dell’amicizia, fatta
di notti insonni e di ingegnosi
espedienti per sopravvivere. I nomi di
Gregory Corso e Lawrence
Ferlinghetti, Jack Kerouac e Allen
Ginsberg si intrecciano alla trama viva
del racconto, mentre i ricordi di Diane
– diretti, intensi, senza filtri – ci
restituiscono il senso di quella febbre
esplorativa, di quella stagione
irripetibile che è stata la Beat
Generation.
Nel sito di Biennale Cinema 2025 è possibile scaricare il pdf dell'intero programma.
Film
Prezzo
COVER-UP
12
ORPHAN
9
LATE FAME
9
THE SOUFFLEUR
10
BROKEN ENGLISH
7
SONGS OF FORGOTTEN TREES
7
A HOUSE OF DYNAMITE
9
L'ÉTRANGER
9
GRAND CIEL
10
PIN DE FARTIE
7
FERDINANDO SCIANNA IL FOTOGRAFO DELL'OMBRA
7
LA VALLE DEI SORRISI
7
Il costo totale delle proiezioni è 103€ per over 65.
I biglietti interi sono maggiorati del 25-35% secondo i casi.
Se non si soggiorna al Lido è necessario aggiungere il costo del vaporetto: 76€ (9,50€ a tratta).
In totale 179€.
Tutto qui, qualora si abbia ovviamente la fortuna di trovare un mecenate che ci possa ospitare, gratis et amore dei, per tutta la durata del soggiorno.
Già citata da Aristotele nella Poetica, la metafora poetica trova in
Paul Ricoeur uno dei teorici contemporanei più acuti e penetranti. È
possibile superare una lettura retorica della metafora e giungere a una
lettura poetica, cioè considerare la metafora come strategia linguistica
capace di dare conto della creazione di un nuovo significato, come
linguaggio di rivelazione. Con questo libro, fra le opere più ricercate
dell'autore, Paul Ricoeur mostra che i linguaggi metaforici non sono
carenti di un vero rapporto con la realtà, anzi sono portatori di una
sovrabbondanza di senso. Tentare di mostrarne la legittimità vuol dire
aprire al linguaggio umano, e all’uomo, altre vie che non sono quelle
della dominazione: dominazione delle cose, dei segni ridotti alla loro
funzione strumentale. L’esperienza metaforica rovescia il nostro
rapporto abituale con il linguaggio e con la realtà: non siamo più noi a
dominare l’universo dei segni, è la parola che ci reclama e ci
interpella.
Ferdinando Scianna Il Fotografo Dell'Ombra di Roberto Andò è un grande documentario in b/n su un grandissimo fotografo, la sua opera e la sua visione della vita e del rapporto con le persone.
Assolutamente da vedere da parte di chi si interessi di fotografia, di chi voglia rendersi conto di come si è evoluta e di come, in ogni caso, non basti schiacciare un bottoncino o cliccare un'icona di uno smartphone per definirsi fotografi.
Grand Ciel di Akihiro Hata è un film francese che descrive le storture del lavoro precario, che multinazionali del cemento e della speculazione edilizia fanno gestire da società interinali.
Eliminato il legame tra proprietà e forza operaia, il clima di continua incertezza del posto di lavoro e la prospettiva di un minimo aumento salariale possono cambiare il comportamento delle persone, spingendole a mettere da parte amicizia e solidarietà.
Ambientato in Francia in una indefinita città che potrebbe essere una qualunque banlieue di una qualunque città europea, assomiglia in certe sequenze a un thriller mentre, in realtà, descrive situazioni che si possono verificare un ogni grande cantiere.
96’ minuti di gran cinema, senza una sequenza in più o in meno del necessario.
Un giorno è entrato in libreria un uomo che mi ha lasciato un biglietto: ho tradotto la poesia di Gianleto Feraboli che compare a pag. 57 di "Poesie di Crotta D' Adda". Nel libro è tradotta da Nino Crimi. E' tradotta bene ma io ho sentito desiderio di dare un'altra lettura di quelle righe bellissime."
No. Non sono degli immigrati sans papier in un sit-in di protesta bensì fans, cacciatori di autografi e drogati di selfies.
Qualunque sia la condizione metereologica, si piazzano fin dal primo mattino per marcare una postazione favorevole da cui chiamare a gran voce i registi attori sceneggiatori o persone del cosiddetto bel mondo che sfilano all’entrata della Sala Grande, con il solo scopo di fotografare, farsi fotografare con, stingere una mano o ottenere uno scarabocchio spacciato per firma su una foto o un pezzo di carta.
L’altro punto di accumulazione di persone con caratteristiche simili è l’entrata dell’hotel Excelsior, dove le star (o presunte tali) protagoniste dei film in programma dimorano dopo essere giunte a bordo di scintillanti motoscafi. Anche qui gruppi urlanti si attivano ogni volta che si apre la porta dell’hotel o arriva un nuovo mezzo all’imbarcadero sperando di vedere “qualcuno” per poterlo fotografare, quindi pubblicare una foto inquadrata male su qualche social e affermare, assieme ad altri milioni di account, io c’ero.
È solo una parte dello zoo umano che frequenta questa manifestazione, tra cui spiccano anonimi personaggi che fanno dell’esibizione uno stile di vita, probabilmente convinti di partecipare a quelle feste di gala che Truman Capote organizzava a New York negli anni ‘60 del secolo scorso.
Poi ci sono gli addetti ai lavori, i giovani delle scuole di cinema, i giornalisti accreditati e quelli freelance, studenti di scuole d’arte e quelli che sono lì solo per vedere film che non saranno mai proiettati in sala ma trasmessi, forse, da qualche piattaforma streaming.
E in ultimo quelli che abitano al Lido, che non vedono l’ora che questo circo finisca anche quest’anno.
A House of Dynamite di Kathryn Bigelow trasmette ansia e la mantiene dai titoli di testa fino a quelli di coda, raccontando i venti minuti che intercorrono tra il lancio di un missile balistico e la sua possibile esplosione in territorio americano.
Come in Rashomon di Kurosawa, i venti minuti sono raccontati in sequenza da tre punti di vista differenti: da quello di scopre il lancio, da quello di chi deve capire chi possa avere deciso il lancio e, in ultimo, da quello di chi deve decidere un’eventuale ritorsione.
Con un montaggio serrato che non lascia neppure un attimo di tregua, il film non tira in ballo cattivissime AI e non è l’ennesimo Mission Impossible in cui Ethan Hunt salva il mondo all’ultimo secondo bensì la rappresentazione di un inaspettato quanto possibile attacco nucleare e le azioni e reazioni delle persone deputate alla gestione di questo tipo di crisi.
Non si esce sollevati dalla sala di proiezione: ci siamo chiusi in una casa foderata di dinamite e spendiamo vagonate di soldi per evitare di accendere le micce, dice uno dei protagonisti.
Prodotto da Netflix, girerà qualche giorno nelle sale e sarà poi disponibile solo su piattaforma streaming.
Broken English è il documentario che di Marianne Faithfull mostra che cosa è stata, come è stata descritta nel tempo dalla stampa, chi in realtà era.
Nella finzione, è strutturato come ricerca/intervista condotta a Faithfull da un non ben definito Ministero della Non Dimenticanza e, in realtà, è l’ultima testimonianza di un’artista che i più hanno sempre ridotta a fidanzata di Mick Jagger quando, in realtà, gli Stones le debbono molta parte della loro creatività.
Faithfull è morta il 30 gennaio di quest’anno durante la lavorazione del documentario, che prende il titolo dalla canzone Broken English, una delle più famose presente nell’album omonimo. Notevole la versione blues di Times Square e l’ultima esibizione dal vivo di Faithfull.
Chi c’era apprezzerà e chi non c’era avrà la possibilità di conoscere una grande artista: ambedue scopriranno come pregiudizi e stampa mainstream possano mistificare una bella mente.
War against the poor They call it social work with guns? Expulsion or exclusion Go belly up or live on crumbs
Is this all that’s left for us these days? Apathy and rage! Dark rotations, disengage!
Which way does the spiral spin, inside out or outside in? It’s a choice and it’s always been… Feast and famine, back to back Plagued by circles on our mental map, We hate each other but we love our trap!
Like a specter in the streets From New York city to the Middle East Violence is a spiral that speaks in loops You never thought that it could happen to you Birds of prey, come home to roost… Finance breeds, weapons feed It’ll drag you down too
America! It’s not a country it’s a business
NYPD, KKK, IDF they’re all the same Just different names
Late Fame di Kent Jones è un’ode poetica a una New York che non esiste più, quella della Beat Generation e degli anni ’60-’70 del secolo scorso.
La sceneggiatura prende spunto dal testo “Fama tardiva” di Arthur Schnitzler per raccontare le vicende di un dimenticato poeta newyorkese che viene ‘riscoperto’ da un gruppo di giovani amanti della poesia.
Girato in 35mm (o in elettronica con qualche software che simula il 35mm sia come formato che come resa visiva) e retto dall’interpretazione di Willem Dafoe e Greta Lee, ricorda in molte sequenze ‘Mean Street’ di Martin Scorzese (che è anche uno dei produttori del film) e brani di ‘Post Office’ di Charles Bukowski.
Cover-up (traducibile con "insabbiamento") è il docufilm che parla del giornalista Seymour Hersh, diventato famoso per i suoi articoli pubblicati dal New York Times durante la guerra del Vietnam, che in particolare resero noto al pubblico il massacro avvenuto nel villaggio vietnamita di My Lai.
Scrisse articoli sul caso Watergate, su casi di dossieraggio di cittadini statunitensi da parte della CIA e più recentemente sulle schifezze compiute dall’esercito in Iraq nel carcere di Abu Ghraib.
Grande esempio di giornalismo investigativo. Due ore di film che tratta fatti noti che cominciano a essere lontani nel tempo: per non dimenticarli da parte di chi c’era o per conoscerli e possibilmente approfondirli per chi è venuto dopo.
Due ore spese bene e dieci minuti di applausi al termine della proiezione di un film che avrà distribuzione insignificante o nulla nei cinema e che sarà forse reso disponibile da qualche piattaforma streaming.
Il più grande dono che Ungaretti mi fece fu una giornata a Fiumicino. Ancora oggi non so come avesse potuto accorgersi che stavo male, fatto sta che insistette per accompagnarmi, già di primo mattino, dall'albergo all'aeroporto e aspettò fino all'ora del volo, aspettò con me un aereo che partì soltanto la sera, e così perse un'intera giornata in mezzo al rumore infernale dell'aeroporto, si occupò di me cercandomi un posto tranquillo, fece portare dello champagne e, con fare misterioso, dispiegò sul tavolo quattro portafortuna, che da allora tengo sempre con me, in viaggio e in casa, tra i quali uno antico, cinese, regalatogli una volta da Jean Paulhan e che quindi io non volevo accettare. Ma Ungaretti disse, in tono rassicurante : io non ho più bisogno di nulla, ho già avuto tutto. Lei invece ha ancora bisogno di qualcosa, e questo la proteggerà.
da " A occhi aperti ", Adelphi 2025
...dedicato al Dottor P. che tanto si è preso cura della libraia
La libraia oggi sente bisogno di ringraziare paolo nori che con le poesie raccolte in " E questo cielo e queste nuvole" Crocetti Editore 2025, è riuscito a farla ridere un giorno in cui lei aveva tanto bisogno di ridere.
La libraia oggi sente bisogno di ringraziare paolo nori che con le poesie raccolte in "E questo cielo e queste nuvole", Crocetti editore 2025, è riuscito a farla piangere un giorno in cui lei aveva tanto bisogno di piangere
Ad un certo punto, era l’estate del 2013, buona parte del jet set artistico di Manhattan sale su lussuose limousine dai vetri oscurati e si dirige verso il Bronx. Destinazione? Forest Houses, un project di
quattro torri da quattordici piani nel cuore di un complesso di
edilizia popolare da 1.400 appartamenti, abitati per il 58% da
afroamericani e per il restante da ispanici. Lo fanno per inaugurare un monumento dedicato a uno dei pensatori marxisti più influenti del Novecento, Antonio Gramsci, in una zona della metropoli dove il sottoproletariato è una realtà definitiva.
Il monumento a Gramsci di Thomas Hirschhorn
Il miracolo di questo esodo lo compie Thomas Hirschhorn,
artista svizzero di fama internazionale e spirito militante che sceglie
uno dei luoghi più periferici e stigmatizzati della grande mela per
erigere il suo Gramsci Monument. Non si tratta di una statua né di un’opera celebrativa, è il tentativo di costruire un luogo ex novo,
dentro un luogo già connotato da una evidenza sociale che è anche
economica, politica e oggi, mentre il South Bronx è in via di
gentrificazione, perfino speculativa. Con intuizione artistica unica e
geniale, Hirschhorn costruisce, insieme a diciassette giovani del
quartiere, una grande struttura in legno, con scritte e immagini fatte a
mano, seguendo il suo consueto stile “povero”, immediato e rude.
L’opera di Thomas Hirschhorn
Il monumento è
una struttura complessa, vivente, un centro culturaletemporaneo e
autogestito: bar, biblioteca, museo, scuola d’arte, sala conferenze,
radio, redazione giornalistica e un sito web costituiscono quest’opera d’arte totale e locale, comunitaria, aperta ogni giorno a incontri, letture, laboratori, dialoghi e riflessioni partecipate dagli abitanti del project. La scena dell’arte qui non esiste. Il Gramsci Monument non è pensato per essere esposto, mostrato su quel palcoscenico che è il museo, e tutti quei white cube che ne imitano lo spazio. All’epoca, Forest Houses rappresenta per l’artista un anti-luogo che semplicemente non esiste su molte mappe “che contano”. Il gesto creativo diventa un atto di presenza politica e poetica in
un contesto marginale, ma pienamente urbano e profondamente reale; è un
fare arte lì dove non arrivano il mercato, le fiere, i collezionisti, i
capitali e soprattutto non arrivano i turisti.
Thomas Hirschorn, Gramsci Monument
L’opera nel South Bronx
Creare
un luogo artistico in un anti-luogo come Forest House può cambiarne la
percezione e quindi il suo destino: è quel che si augura l’artista. Fin
dal principio, il suo intento è quello di costruire un dispositivo per “far vivere un pensiero”,
quello gramsciano, in una comunità di persone che ignorano la figura
del comunista sardo, ma ne condividono la voglia di riscatto. “Mi interessa cosa un monumento può produrre ogni giorno”, mi dice Hirschhorn quando salgo a trovarlo in una giornata afosa di quel luglio ormai lontano. “Non miro alla celebrazione passiva di una figura” continua.
Abiterà il suo progetto per i 77 giorni della sua durata, accogliendo i
residenti e dando loro la parola in un luogo “protetto”. Insieme a
loro, farà crescere organicamente il “monumento”, caricandolo di
contenuti e creando ogni giorno un quotidiano, così come un sito web. A
quella data, Hirschhorn ha già creato “monumenti filosofici” dedicati a
Spinoza, Bataille e Deleuze, ma in quei progetti la sua presenza era
stata marginale.
Intervista a Thomas Hirschhorn
Realizzato con la collaborazione della Fondazione Gramsci, il monumento vanta un piccolo “museo” che espone gli oggetti usati in carcere dal fondatore de L’Unità,
l’organo ufficiale d’informazione del Partito Comunista Italiano andato
in stampa dal 1924 fino alle ripetute chiusure recenti e che per un
secolo ha accolto gli articoli dei grandi intellettuali italiani: un
giornale che neanche il regime fascista riuscì a estinguere e per il
quale sono salito anche io nel Bronx, quel giorno lontano, per
raccogliere il pensiero di Thomas. “Mi basta che conoscano il nome Gramsci, o la sua data di nascita, è un buon inizio” mi confessa, mentre un afroamericano infila occhiali da vista simili a quelli di Gandhi, e inizia un reading di poesie scritte da lui per il vicinato e mentre alcuni bambini si avvicinano per capire cosa ci faccia questo luogo extra-terrestre in mezzo al loro cortile condominiale.
Gramsci in America
Questo strano
luogo, apparso come un fungo, è un motore relazionale, un laboratorio di
possibilità: il progetto ha un’evidente valenza politica, anche se
Hirschhorn insiste sulla centralità della forma. “Sono un artista”, mi dice, “non un attivista, ma la forma deve incontrare la vita”. Ecco un topos delle
avanguardie, di un’arte che si pensa come produttrice di
“emancipazione”, un concetto per il quale Gramsci si è battuto e per il
quale è stato recentemente molto amato e molto studiato, proprio negli
Stati Uniti d’America. Ben più, forse, che nella sua Italia.
Visit Beautiful Vietnam, il cui sottotitolo originale recitava ABC delle aggressioni (ieri come oggi)
raccoglie i testi che Günther Anders ha dedicato alla guerra del
Vietnam. Membro del Tribunale Russell che nel 1967 condannò i crimini di
guerra compiuti dall’esercito statunitense, Günther Anders sostiene che
la guerra del Vietnam ha inaugurato un nuovo tipo di guerra. Una guerra
in cui la superiorità della forza armata dell’aggressore è tale che
l’esito del conflitto appare fin dall’inizio scontato, senza speranza
per l’aggredito. Ma non per annettere una nuova provincia all’impero; lo
scopo dell’aggressione è costringere la parte attaccata a riconoscere
una forma di tutela morale, accettando di entrare nella zona di
influenza politica dell’aggressore.
Di questo libro, finora inedito in italiano, proponiamo qui due voci che sembrano interpellare più che mai il nostro presente.