giovedì 18 agosto 2016

Agamben, la devozione per il potere

Avete presente il giochetto delle associazioni di parole, quando alla proposizione di un termine la mente umana ne abbina un altro strappandolo dall'inconscio, dalla memoria o da chissà dove? Funziona anche con i nomi. Io, ad esempio, faccio sempre un accostamento bizzarro. Ogni volta che viene evocato uno dei più celebri filosofi italiani viventi, davanti ai miei occhi egli compare puntualmente accompagnato da un oscuro anarchico francese dell'800. È un vero e proprio riflesso condizionato il mio, di cui non riesco a liberarmi, sebbene non sia difficile capire che non ci sono proprio relazioni fra il cattedratico Giorgio Agamben ed il proscritto Ernest Coeurderoy. Eppure...

Per fortuna so bene qual è il motivo per cui mi succede questo, non occorre che mi rivolga ad uno psicanalista. Non c'è alcun rimosso da far riaffiorare, ricordo perfettamente quando è iniziato questo abbinamento. Stavo sfogliando un libro di Coeurderoy quando mi sono imbattuto in queste parole: «Leggere troppo è non voler mai negare niente e non voler mai affermare niente. L'estrema erudizione, come la primitiva ignoranza, generano il Mutismo stupido o la Chiacchiera delirante. Chi vuole sapere troppo si annichilisce tanto quanto chi non vuole imparare nulla... Fra noi occidentali, la sapienza è diventata talmente endemica che non sapremmo fare un articolo di almanacco senza risalire alle dottrine di Platone, e senza appoggiare i gomiti su colonne di cifre. E che dire dei giornali? Per azzardare sulle loro colonne un'opinione sul passaggio del Prut, è indispensabile prima fare la storia dei Cosacchi a partire da Rurick, e soprattutto non pronunciarsi sul passaggio del Prut». È la più perfetta e piacevole descrizione dell'imbecillità erudita che abbia mai letto.

Una volta entrate nella mia testa, queste parole hanno cercato un esempio concreto con cui raffigurarsi ed è subito apparso lui. Mi sembrava di averlo davanti, l'autore della summa Homo sacer. Uno che, quale che sia l'argomento su cui si esprime, è capace di prenderlo alla larga, da Paolo di Tarso preferibilmente, ne scandaglia l'antica origine per poi bearsi a lungo in compagnia di filosofi nazisti quali Schmitt ed Heidegger — ognuno sceglie il proprio arsenale da saccheggiare —, per poi buttarsi nelle braccia di quei filosofi transalpini alla Foucault specializzati nella «sovversione sovvenzionata». Il che va benissimo quando si intende solo filosofare. Ognuno ha i suoi passatempi; c'è chi si sbronza, chi fa rissa in piazza o allo stadio, chi si dedica al porno. Agamben ama l'erudizione. Niente di male. 

Il guaio è che talvolta egli mette il naso fuori dal chiostro della mera speculazione, si spinge fino negli spazi di movimento circondato dalla deferenza dei bifolchi e, quando lo fa, eccolo partire da Rurick per non dire nulla sul passaggio del Prut. Anzi, peggio! Molto peggio, perché quando gli salta in mente di esprimersi su di un fatto concreto, non si differenzia poi molto da quello che potrebbe dire se non il primo, almeno il secondo o il terzo passante per strada: il Prut è un fiume, ad attraversarlo ci si bagna, sarebbe meglio evitarne i tratti più profondi e le correnti più infide, tra cosacchi e turchi non corre buon sangue (il riferimento pare sia ad un fatto avvenuto nel lontano 1826). È come se le sue sinapsi si paralizzassero.

Ancora me lo ricordo nel 2008, dopo l'arresto in Francia di un suo allievo accusato di aver compiuto un sabotaggio contro l'Alta Velocità. Poveraccio, gli sarà tornato in mente l'amico/rivale Toni Negri, le manette del 7 aprile, i «cattivi maestri»... Si era precipitato a scrivere un esilarante articolo in cui condivideva «l'inquietudine di questi giovani di fronte alle degradazioni della democrazia», rinnovando al suo allievo la propria stima «da un punto di vista intellettuale» (non si sa mai, meglio evitare fraintendimenti con qualche monsieur Calogero in fregola giustizialista) e rammentando che «in Italia i treni sono molto spesso in ritardo ma nessuno si è mai sognato di accusare di terrorismo la società nazionale delle ferrovie». Aveva trovato anche «il coraggio di dire con chiarezza che oggi, in molti paesi europei, si sono introdotte delle leggi e delle misure di polizia che in passato si sarebbero giudicate come barbare e antidemocratiche», come quella che consente il fermo per 4 giorni di «un gruppo di giovani forse imprudenti». Tutto qui il succo delle sue dotte meningi? Bisogna capirlo, il sabotaggio non ha una ontologia su cui ruminare all'infinito.

È bello sapere che questo suo coraggio civile non lo ha abbandonato giacché un paio di anni fa ha alzato la voce in difesa non di un giovane francese, ma di un anziano tedesco che aveva appena osato l'inosabile: dare le dimissioni da pontefice. Ringalluzzito il chierichetto della teologia che cova in lui, nei panni di chierico della cultura ha quindi agognato il ritorno di un Impero Latino guidato dalla Chiesa — il solo modo per fermare l'egemonia teutonica in Europa. Tutto ciò lo riporto solo come premessa, tanto per far capire il baratro in cui può scivolare l'erudizione non appena esce dalla biblioteca.

Ebbene, oggi Agamben — dopo essere riuscito ad intossicarci per anni con uno «stato di eccezione» buono solo a far rivalutare lo stato di diritto, una «singolarità qualunque» buona solo ad annullare ogni unicità individuale, dei «mezzi senza fini» buoni solo a giustificare l'opportunismo di chi è disposto ad usare qualsiasi mezzo — ha promosso un altro concetto che si sta già diffondendo e che conoscerà altrettanto se non maggiore successo: la potenza destituente. Beh, qui l'abbinamento di termini è proprio facile e scontato giacché la «potenza destituente» rimanda subito al «potere costituito» caro al suo collega di cordata Toni Negri. Solo che non si tratta affatto di una alternativa radicalmente diversa, come potrebbero pensare i suoi ammiratori più libertari (sempre lesti a ripetere le parole dell'italico quotidiano comunista, secondo cui Agamben «davvero dischiude una nuova dimensione del pensiero mentre restituisce — con buona pace della "potenza costituente", cioè delle istituzioni e del governo — tutta la serietà dell'anarchia»), semmai di una alternanza di transizioni. Potere costituito e potenza destituente non sono affatto in opposizione, ma vanno sapientemente miscelati.

Per far crescere un bravo figliolo, in una sana famiglia rispettosa delle tradizioni, ci vuole sia un padre autoritario che una madre affettuosa. Il padre urlante pretenderà il lavoro produttivo in grado di cambiare il mondo, la madre sorridente concederà l'inoperosità sovrana che fa maturare la persona. Va da sé che il figliolo amerà la madre ed odierà il padre, che in fondo però rispetterà e di cui prenderà prima o poi il posto. Papà Negri e mamma Agamben hanno cresciuto intere schiatte di sovversivi a forza di ceffoni e carezze, entrambi indispensabili per dare una educazione politica ai figlioli, ops, scusate, ai kompagni. 

Diffidare del potere costituente è facile, intuitivo, in fondo bastano quelle due sole paroline per vedere agitarsi i vecchi fantasmi del contropotere, del governo rivoluzionario, della dittatura del... precariato. Evocano la vecchia concezione leninarda autoritaria del movimento che si fa Stato. Il potere costituente, giovane e fresco, che scalza quello costituito vecchio e bolso e ne prende il posto. Nulla di molto appassionante, geometrie simmetriche, si annega subito nella bava dell'ambizione politica di aspiranti ministri. La potenza destituente, invece, suona assai meglio. È più sobria, distaccata, sensibile. Non sbatte in faccia l'orizzonte istituzionale, no di certo. Anzi, lo fustiga per poi rifilarlo poco dopo sotto forma di fazzoletto con cui asciugarsi le lacrime. È la carezza che segue e precede il ceffone. Non ci sono contraddizioni ed opposizioni, solo fasi diverse. 

Si illude chi pensa che qui la potenza, in quanto energia in movimento, sia irreconciliabile con il potere inteso come energia istituzionalizzata. Per molti infatti — fra cui lo stesso Agamben — questi due termini sono intercambiabili, esprimendo al massimo due momenti diversi di una medesima forza. In effetti sarebbe pure comprensibile assegnare al potere una connotazione più cristallizzata, compiuta. Senza confondere il potere con la sete di potere, perché lo scettro c'è chi ce l'ha e chi lo vorrebbe avere. Da questo punto di vista il potere è solo quello costituito, vittorioso, deliberante. Quello in via di elaborazione, in competizione, voglioso di prenderne il posto, gli assomiglia, certo, però è definibile solo come potenza.

Ma si tratta di una potenza, di una forza, costituente o destituente? Mira a costruire istituzioni o a disfarsene? Non c’è molta differenza, considerato che in filosofia politica una cosa è conseguenza dell'altra. In un certo senso, se la distruzione è anche gioia creativa, allo stesso modo la forza che provoca la destituzione è anche costitutiva.

Il nostro tenta di contrabbandare un equivoco simile a quello generato dal concetto di «stato di eccezione». Dire che la sovranità si fonda sull'abuso del potere, sulla sospensione del diritto, non è una radicale negazione del dominio, in realtà ne è la giustificazione. Questo perché sottolineare l'infamia dell'abuso non fa che decretare la bontà dell'uso. Il concetto di destituzione funziona allo stesso modo, non eccede affatto il contesto istituzionale, lo conferma e lo rafforza. 

Agamben ha evocato la potenzialità destituente nel corso di una sua conferenza tenuta ad Atene nel novembre del 2013, su invito rivoltogli anche dal partito di Syriza. Dopo aver pianto la morte della bella democrazia vittima del brutale Stato securitario, dei cui artigli si è accorto perfino stando dentro al suo chiostro, afferma che è giunto il momento di abbandonare il paradigma della rivoluzione vista come costituzione di un nuovo ordine istituzionale. Al suo posto invoca quel «potere destituente» che percepiva già presente in Benjamin, il quale auspicava l'abolizione dello Stato e la destituzione definitiva del diritto. Ora, è facile giocare sull’ambivalenza di certi termini. Destituito può indicare una mancanza, come ad esempio nell'espressione «destituito di fondamento». La mancanza qui evocata è quella della dimensione statale? Ma a che serve notare una mancanza se non a colmarla? Se consultiamo un dizionario ci accorgiamo che destituire significa rimuovere da un impegno, da un ufficio, da un grado — essendo la destituzione una sanzione disciplinare che colpisce chi si è macchiato di una grave mancanza. E chi può prendere una tale decisione, se non chi possiede l'autorità per farlo? Dopo di che, cosa può avvenire se non una sostituzione, ovvero l'assegnazione ad altri, più meritevoli, dello stesso impegno, ufficio, grado? È la stessa ambiguità presente nel concetto di abolizione, trattandosi di una «cessazione definitiva imposta d'autorità».

Sono buffe le acrobazie dialettiche di chi è scontento dell'autorità, ma non sa e non vuole farne a meno. Benjamin ad esempio, nel sognare la fine dello Stato, sosteneva che nulla è così anarchico come l'ordine borghese (?). Il suo esegeta italiano cita Pasolini, difensore di sbirri proletari, secondo cui «la vera anarchia è l'anarchia al potere». Infatti per Agamben l'anomia è quella dei campi di concentramento. Poi però si duole della difficoltà di «pensare oggi qualche cosa come una vera anarchia o una vera anomia» e conclude che la sfida è proprio quella di comprendere e deporre «l'anarchia e l'anomia del potere». A parte il fatto che dovrebbe decidersi se la «vera anarchia» è quella al potere pasoliniamente parlando, o quella soggiogata dallo Stato, ma poi, mi si perdoni il quesito: quale sarebbe la nuova strategia per giungere all'Ingovernabile? Quell'Impero Latino di cui Agamben delirava solo otto mesi prima di questa conferenza? 

Suvvia, va bene il rispetto per i “sapienti”, ma a tutto c'è un limite. Già è difficile prendere sul serio uno che arriva a sostenere: «non abbiamo mai capito se Moro sia stato assassinato dalle Brigate Rosse o da qualche banda corrotta dai servizi segreti». O che millanta un’amicizia con Guy Debord smentita da tempo dalla pubblicazione della corrispondenza del teorico situazionista. E lasciamo perdere chi lo accusa di sciorinare il proprio sapere per intimidire eventuali critici. Ma come si fa a non mettersi a ridere a crepapelle davanti al dotto sostenitore dell'abbandono di categorie giuridiche che riesce ad esprimersi solo attraverso categorie giuridiche, capace di sostenere senza imbarazzo che «senza la possibilità di tornare indietro, ai princìpi del sistema giudiziario, si vede la legge diventare uno strumento nelle mani dei governi»? Come non sghignazzare di fronte a questo celebre docente di istituzioni culturali che si scaglia contro lo Stato e le sue istituzioni, e che è talmente desideroso di una azione «non costitutiva di un nuovo ordine politico e giuridico» da augurarsi «che il governo di sinistra di Syriza possa essere la scintilla di una svolta progressista in Europa»?

Tranne che per i sinistri che pendono dalla sua labbra, è fin troppo evidente che, se l’intento fosse davvero quello di disinnescare i meccanismi del potere, questi andrebbero sabotati sia nel presente (potere costituito) sia nel divenire (potenza destituente-costituente), e che perciò non ci sono motivi per oliare l'illusione di un qualche buon governo, di gabinetto greco o di sacrestia romana. Chiacchiera delirante a parte, per comprendere quali siano le pratiche reali benedette dalla sua metafisica basta guardare l'operato dei suoi ammiratori più vitaminici come ad esempio il gruppo di giovani francesi «forse imprudenti» di cui sopra. Cosa fanno per dare slancio alla potenza destituente? Si fanno eleggere nelle istituzioni locali e si mettono in mostra cercando spazio nei mass-media. Esattamente quello che fanno qui in Italia gli aperti sostenitori del potere costituente. E sarebbe questa la nuova forma-di-vita del divenire rivoluzionario?

Ecco, davanti alla cialtroneria di cotanta erudizione e prassi è impossibile trattenersi da un ultimo abbinamento mentale, e renderle il medesimo omaggio rivolto a suo tempo sul grande schermo all’onorevole di turno: ma mi faccia il piacere!

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