Avete
presente il giochetto delle associazioni di parole, quando alla
proposizione di un termine la mente umana ne abbina un altro
strappandolo dall'inconscio, dalla memoria o da chissà dove? Funziona
anche con i nomi. Io, ad esempio, faccio sempre un accostamento
bizzarro. Ogni volta che viene evocato uno dei più celebri filosofi
italiani viventi, davanti ai miei occhi egli compare puntualmente
accompagnato da un oscuro anarchico francese dell'800. È un vero e
proprio riflesso condizionato il mio, di cui non riesco a liberarmi,
sebbene non sia difficile capire che non ci sono proprio relazioni fra
il cattedratico Giorgio Agamben ed il proscritto Ernest Coeurderoy.
Eppure...
Per
fortuna so bene qual è il motivo per cui mi succede questo, non occorre
che mi rivolga ad uno psicanalista. Non c'è alcun rimosso da far
riaffiorare, ricordo perfettamente quando è iniziato questo abbinamento.
Stavo sfogliando un libro di Coeurderoy quando mi sono imbattuto in
queste parole: «Leggere troppo è non voler mai negare niente e non voler
mai affermare niente. L'estrema erudizione, come la primitiva
ignoranza, generano il Mutismo stupido o la Chiacchiera delirante. Chi
vuole sapere troppo si annichilisce tanto quanto chi non vuole imparare
nulla... Fra noi occidentali, la sapienza è diventata talmente
endemica che non sapremmo fare un articolo di almanacco senza risalire
alle dottrine di Platone, e senza appoggiare i gomiti su colonne di
cifre. E che dire dei giornali? Per azzardare sulle loro colonne
un'opinione sul passaggio del Prut, è indispensabile prima fare la
storia dei Cosacchi a partire da Rurick, e soprattutto non pronunciarsi
sul passaggio del Prut». È la più perfetta e piacevole descrizione
dell'imbecillità erudita che abbia mai letto.
Una
volta entrate nella mia testa, queste parole hanno cercato un esempio
concreto con cui raffigurarsi ed è subito apparso lui. Mi sembrava di
averlo davanti, l'autore della summa Homo sacer. Uno che, quale
che sia l'argomento su cui si esprime, è capace di prenderlo alla larga,
da Paolo di Tarso preferibilmente, ne scandaglia l'antica origine per
poi bearsi a lungo in compagnia di filosofi nazisti quali Schmitt ed
Heidegger — ognuno sceglie il proprio arsenale da saccheggiare —, per poi buttarsi
nelle braccia di quei filosofi transalpini alla Foucault specializzati
nella «sovversione sovvenzionata». Il che va benissimo quando si intende
solo filosofare. Ognuno ha i suoi passatempi; c'è chi si sbronza, chi
fa rissa in piazza o allo stadio, chi si dedica al porno. Agamben ama
l'erudizione. Niente di male.
Il
guaio è che talvolta egli mette il naso fuori dal chiostro della mera
speculazione, si spinge fino negli spazi di movimento circondato dalla
deferenza dei bifolchi e, quando lo fa, eccolo partire da Rurick per non
dire nulla sul passaggio del Prut. Anzi, peggio! Molto peggio, perché
quando gli salta in mente di esprimersi su di un fatto concreto, non si
differenzia poi molto da quello che potrebbe dire se non il primo,
almeno il secondo o il terzo passante per strada: il Prut è un fiume, ad
attraversarlo ci si bagna, sarebbe meglio evitarne i tratti più
profondi e le correnti più infide, tra cosacchi e turchi non corre buon
sangue (il riferimento pare sia ad un fatto avvenuto nel lontano 1826). È
come se le sue sinapsi si paralizzassero.
Ancora
me lo ricordo nel 2008, dopo l'arresto in Francia di un suo allievo
accusato di aver compiuto un sabotaggio contro l'Alta Velocità.
Poveraccio, gli sarà tornato in mente l'amico/rivale Toni Negri, le
manette del 7 aprile, i «cattivi maestri»... Si era precipitato a
scrivere un esilarante articolo in cui condivideva «l'inquietudine di
questi giovani di fronte alle degradazioni della democrazia», rinnovando
al suo allievo la propria stima «da un punto di vista intellettuale»
(non si sa mai, meglio evitare fraintendimenti con qualche monsieur
Calogero in fregola giustizialista) e rammentando che «in Italia i treni
sono molto spesso in ritardo ma nessuno si è mai sognato di accusare di
terrorismo la società nazionale delle ferrovie». Aveva trovato anche
«il coraggio di dire con chiarezza che oggi, in molti paesi europei, si
sono introdotte delle leggi e delle misure di polizia che in passato si
sarebbero giudicate come barbare e antidemocratiche», come quella che
consente il fermo per 4 giorni di «un gruppo di giovani forse
imprudenti». Tutto qui il succo delle sue dotte meningi? Bisogna
capirlo, il sabotaggio non ha una ontologia su cui ruminare
all'infinito.
È
bello sapere che questo suo coraggio civile non lo ha abbandonato
giacché un paio di anni fa ha alzato la voce in difesa non di un giovane
francese, ma di un anziano tedesco che aveva appena osato l'inosabile:
dare le dimissioni da pontefice. Ringalluzzito il chierichetto della
teologia che cova in lui, nei panni di chierico della cultura ha quindi
agognato il ritorno di un Impero Latino guidato dalla Chiesa — il solo
modo per fermare l'egemonia teutonica in Europa. Tutto ciò lo riporto
solo come premessa, tanto per far capire il baratro in cui può scivolare
l'erudizione non appena esce dalla biblioteca.
Ebbene,
oggi Agamben — dopo essere riuscito ad intossicarci per anni con uno
«stato di eccezione» buono solo a far rivalutare lo stato di diritto,
una «singolarità qualunque» buona solo ad annullare ogni unicità
individuale, dei «mezzi senza fini» buoni solo a giustificare
l'opportunismo di chi è disposto ad usare qualsiasi mezzo — ha promosso
un altro concetto che si sta già diffondendo e che conoscerà altrettanto
se non maggiore successo: la potenza destituente. Beh, qui
l'abbinamento di termini è proprio facile e scontato giacché la «potenza
destituente» rimanda subito al «potere costituito» caro al suo collega
di cordata Toni Negri. Solo che non si tratta affatto di una alternativa
radicalmente diversa, come potrebbero pensare i suoi ammiratori più
libertari (sempre lesti a ripetere le parole dell'italico quotidiano
comunista, secondo cui Agamben «davvero dischiude una nuova dimensione
del pensiero mentre restituisce — con buona pace della "potenza
costituente", cioè delle istituzioni e del governo — tutta la serietà
dell'anarchia»), semmai di una alternanza di transizioni. Potere
costituito e potenza destituente non sono affatto in opposizione, ma
vanno sapientemente miscelati.
Per
far crescere un bravo figliolo, in una sana famiglia rispettosa delle
tradizioni, ci vuole sia un padre autoritario che una madre affettuosa.
Il padre urlante pretenderà il lavoro produttivo in grado di cambiare il
mondo, la madre sorridente concederà l'inoperosità sovrana che fa
maturare la persona. Va da sé che il figliolo amerà la madre ed odierà
il padre, che in fondo però rispetterà e di cui prenderà prima o poi il
posto. Papà Negri e mamma Agamben hanno cresciuto intere schiatte di
sovversivi a forza di ceffoni e carezze, entrambi indispensabili per
dare una educazione politica ai figlioli, ops, scusate, ai kompagni.
Diffidare
del potere costituente è facile, intuitivo, in fondo bastano quelle due
sole paroline per vedere agitarsi i vecchi fantasmi del contropotere,
del governo rivoluzionario, della dittatura del... precariato. Evocano
la vecchia concezione leninarda autoritaria del movimento che si fa
Stato. Il potere costituente, giovane e fresco, che scalza quello
costituito vecchio e bolso e ne prende il posto. Nulla di molto
appassionante, geometrie simmetriche, si annega subito nella bava
dell'ambizione politica di aspiranti ministri. La potenza destituente,
invece, suona assai meglio. È più sobria, distaccata, sensibile. Non
sbatte in faccia l'orizzonte istituzionale, no di certo. Anzi, lo
fustiga per poi rifilarlo poco dopo sotto forma di fazzoletto con cui
asciugarsi le lacrime. È la carezza che segue e precede il ceffone. Non
ci sono contraddizioni ed opposizioni, solo fasi diverse.
Si
illude chi pensa che qui la potenza, in quanto energia in movimento, sia
irreconciliabile con il potere inteso come energia istituzionalizzata.
Per molti infatti — fra cui lo stesso Agamben — questi due termini sono
intercambiabili, esprimendo al massimo due momenti diversi di una
medesima forza. In effetti sarebbe pure comprensibile assegnare al
potere una connotazione più cristallizzata, compiuta. Senza confondere
il potere con la sete di potere, perché lo scettro c'è chi ce l'ha e chi
lo vorrebbe avere. Da questo punto di vista il potere è solo quello
costituito, vittorioso, deliberante. Quello in via di elaborazione, in
competizione, voglioso di prenderne il posto, gli assomiglia, certo,
però è definibile solo come potenza.
Ma
si tratta di una potenza, di una forza, costituente o destituente? Mira a
costruire istituzioni o a disfarsene? Non c’è molta differenza,
considerato che in filosofia politica una cosa è conseguenza dell'altra.
In un certo senso, se la distruzione è anche gioia creativa, allo
stesso modo la forza che provoca la destituzione è anche costitutiva.
Il
nostro tenta di contrabbandare un equivoco simile a quello generato dal
concetto di «stato di eccezione». Dire che la sovranità si fonda
sull'abuso del potere, sulla sospensione del diritto, non è una radicale
negazione del dominio, in realtà ne è la giustificazione. Questo perché
sottolineare l'infamia dell'abuso non fa che decretare la bontà
dell'uso. Il concetto di destituzione funziona allo stesso modo, non
eccede affatto il contesto istituzionale, lo conferma e lo rafforza.
Agamben
ha evocato la potenzialità destituente nel corso di una sua conferenza
tenuta ad Atene nel novembre del 2013, su invito rivoltogli anche dal
partito di Syriza. Dopo aver pianto la morte della bella democrazia
vittima del brutale Stato securitario, dei cui artigli si è accorto
perfino stando dentro al suo chiostro, afferma che è giunto il momento
di abbandonare il paradigma della rivoluzione vista come costituzione di
un nuovo ordine istituzionale. Al suo posto invoca quel «potere
destituente» che percepiva già presente in Benjamin, il quale auspicava
l'abolizione dello Stato e la destituzione definitiva del diritto. Ora, è
facile giocare sull’ambivalenza di certi termini. Destituito può
indicare una mancanza, come ad esempio nell'espressione «destituito di
fondamento». La mancanza qui evocata è quella della dimensione statale?
Ma a che serve notare una mancanza se non a colmarla? Se consultiamo un
dizionario ci accorgiamo che destituire significa rimuovere da un impegno, da un ufficio, da un grado — essendo la destituzione
una sanzione disciplinare che colpisce chi si è macchiato di una grave
mancanza. E chi può prendere una tale decisione, se non chi possiede
l'autorità per farlo? Dopo di che, cosa può avvenire se non una
sostituzione, ovvero l'assegnazione ad altri, più meritevoli, dello
stesso impegno, ufficio, grado? È la stessa ambiguità presente nel
concetto di abolizione, trattandosi di una «cessazione definitiva
imposta d'autorità».
Sono
buffe le acrobazie dialettiche di chi è scontento dell'autorità, ma non
sa e non vuole farne a meno. Benjamin ad esempio, nel sognare la fine
dello Stato, sosteneva che nulla è così anarchico come l'ordine borghese
(?). Il suo esegeta italiano cita Pasolini, difensore di sbirri
proletari, secondo cui «la vera anarchia è l'anarchia al potere».
Infatti per Agamben l'anomia è quella dei campi di concentramento. Poi
però si duole della difficoltà di «pensare oggi qualche cosa come una
vera anarchia o una vera anomia» e conclude che la sfida è proprio
quella di comprendere e deporre «l'anarchia e l'anomia del potere». A
parte il fatto che dovrebbe decidersi se la «vera anarchia» è quella al
potere pasoliniamente parlando, o quella soggiogata dallo Stato, ma poi,
mi si perdoni il quesito: quale sarebbe la nuova strategia per giungere
all'Ingovernabile? Quell'Impero Latino di cui Agamben delirava solo
otto mesi prima di questa conferenza?
Suvvia,
va bene il rispetto per i “sapienti”, ma a tutto c'è un limite. Già è
difficile prendere sul serio uno che arriva a sostenere: «non abbiamo
mai capito se Moro sia stato assassinato dalle Brigate Rosse o da
qualche banda corrotta dai servizi segreti». O che millanta un’amicizia
con Guy Debord smentita da tempo dalla pubblicazione della
corrispondenza del teorico situazionista. E lasciamo perdere chi lo
accusa di sciorinare il proprio sapere per intimidire eventuali critici.
Ma come si fa a non mettersi a ridere a crepapelle davanti al dotto
sostenitore dell'abbandono di categorie giuridiche che riesce ad
esprimersi solo attraverso categorie giuridiche, capace di sostenere
senza imbarazzo che «senza la possibilità di tornare indietro, ai
princìpi del sistema giudiziario, si vede la legge diventare uno
strumento nelle mani dei governi»? Come non sghignazzare di fronte a
questo celebre docente di istituzioni culturali che si scaglia contro lo
Stato e le sue istituzioni, e che è talmente desideroso di una azione
«non costitutiva di un nuovo ordine politico e giuridico» da augurarsi
«che il governo di sinistra di Syriza possa essere la scintilla di una
svolta progressista in Europa»?
Tranne
che per i sinistri che pendono dalla sua labbra, è fin troppo evidente
che, se l’intento fosse davvero quello di disinnescare i meccanismi del
potere, questi andrebbero sabotati sia nel presente (potere costituito)
sia nel divenire (potenza destituente-costituente), e che perciò non ci
sono motivi per oliare l'illusione di un qualche buon governo, di
gabinetto greco o di sacrestia romana. Chiacchiera delirante a parte,
per comprendere quali siano le pratiche reali benedette dalla sua
metafisica basta guardare l'operato dei suoi ammiratori più vitaminici
come ad esempio il gruppo di giovani francesi «forse imprudenti» di cui
sopra. Cosa fanno per dare slancio alla potenza destituente? Si fanno
eleggere nelle istituzioni locali e si mettono in mostra cercando spazio
nei mass-media. Esattamente quello che fanno qui in Italia gli aperti
sostenitori del potere costituente. E sarebbe questa la nuova
forma-di-vita del divenire rivoluzionario?
Ecco,
davanti alla cialtroneria di cotanta erudizione e prassi è impossibile
trattenersi da un ultimo abbinamento mentale, e renderle il medesimo
omaggio rivolto a suo tempo sul grande schermo all’onorevole di turno: ma mi faccia il piacere!
www.finimondo.org
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