Da Barcellona...
Venerdì, 16 luglio. Nelle sedi sindacali, nelle redazioni
della nostra stampa e nel riunioni si vedono facce gravi. Durante la
notte non si dorme. Si vigilano le mosse del nemico.
Nel Marocco è scoppiato il movimento e Franco è padrone del territorio. La notizia non è ufficiale, ma è certa.
— Ci sono armi, compagno?
— Poche; ma non t’allarmare, le troveremo.
17 luglio. Un’altra notte di tensione e di attesa, ma anche
d’attività. I militanti dei Trasporti Marittimi hanno ben lavorato.
Sanno dell’arrivo di un carico d’armi e, con audacia, se ne appropriano.
Juan Yague, morto per la gloria della Rivoluzione, si moltiplicava di
energia.
La notizia delle armi è trapelata alla polizia e al governo. Alle cinque del mattino le autorità vanno al porto per riprenderle.
Nella Rambla c’è animazione. Molti compagni affluiscono per offrire
i loro servizi. Ascaso, l’eroico, passa assorto. Lo interroghiamo:
— Non ci sono novità. Abbiamo potuto salvarne una parte — risponde con la sua aria serena.
Passa una vettura pel trasporto del latte. Son le armi che vanno. Se n’è salvata una parte.
18 luglio. Alle nove di sera si presenta Durruti nella redazione di Tierra y Libertad. È entusiasta, raggiante e, col suo sorriso indimenticabile, dice:
— All’erta, compagni. Alle dodici in Costruccion. Lì vi saranno
date le indicazioni su quel che c’è da fare. Io, per parte mia, sono
preparato. Guardate.
E ci mostra due rivoltelle che gli pendevano dalla cintura.
Notti di effervescenza; chi va e chi viene; riunioni; ansia ed entusiasmo; molto entusiasmo.
19 luglio. Fa giorno. I bandi militari sono stati
strappati. Gli aeroplani rombano nel cielo di Barcellona. La fucileria,
in ogni parte della città, è enorme. Finalmente, i fascisti mostrano la
faccia. La battaglia minaccia di essere dura e vasta. Le armerie sono
invase; i vetri infranti ingombrano le strade. Si distribuiscono armi
corte, lunghe, schioppi da caccia, pistoloni del tempo di Maria
Cristina, rivoltelle da ragazzi, pugnali, coltelli, in una parola, tutto
ciò che può servire a combattere.
In piazza Catalogna si lotta per espugnare la Telefonica. In piazza
dell’Università, la Guardia Civil impegna battaglia con le truppe della
reazione. Nei quartieri proletari si combatte con accanimento. Le
truppe uscite dalla caserma Pedralbes per occupare Piazza Badia sono
attaccate e sconfitte. I faziosi si fortificano nell’Hotel Ritz, in vari
conventi e in certe chiese. All’Atarazanas la mischia è più aspra. I
militari, protetti da una muraglia enorme, solidissima, sono quasi
invincibili. Qui il fuoco incomincia con le prime ore del mattino. I
rivoluzionari sono mitragliati con abbondanza di munizioni dalla
caserma, dal vecchio edificio della Auditoria Militar, dalla Casa della
Navigazione Italiana, dalla Banca di Spagna e dalla chiesa di Santa
Madrona. Alle nove, vari soldati e ufficiali fanno la loro apparizione
nella Rambla. I compagni danno l’allarme: la truppa avanza! Ma subito si
vedono soldati e capi mostrar fazzoletti bianchi di pace. Talvolta la
voce dei compagni dice: «Non sparate, compañeros, arrendetevi, venite
con noi!». E poi soldati e lavoratori si abbracciano fra grida di
entusiasmo e lacrime di commozione. È un momento d’ineffabile
grandiosità. Il fuoco ricomincia. I faziosi, arrabbiati, sparano senza
sosta, ma i nostri non scherzano e rispondono con energia.
Nella Capitaneria General, Goded resiste senza troppo ardore. Un
paio di cannonate ben dirette decidono del conflitto, e il generale si
arrende dopo poche ore dal principio delle ostilità e dall’arrivo
dell’aeroplano che l’ha portato da Majorca.
Arresosi il primo baluardo del militarismo, tutto il grande e
solido apparato costruito durante il biennio negro vacilla e crolla.
Sono le undici antimeridiane del 19 luglio, e la Telefonica si è arresa.
Così pure l’Hotel Colon. Più tardi si arrende l’Università. Il fascismo
è virtualmente sconfitto, a Barcellona. Gli assalti alle case dove
s’erano fortificati i faziosi, a quelle dei potentati, gli incendi alle
chiese e ai conventi si succedono senza interruzioni. Dal cader della
notte, grandi incendi illuminano la città. All’infuori dei bagliori del
fuoco, Barcellona è avvolta nella completa oscurità. Gruppi di compagni
armati percorrono le strade. Senza tregua s’ode la consegna: «C.N.T.!
C.N.T.!» accompagnata da evviva e dai colpi dell’Atarazanas.
20 luglio. La battaglia continua presso questa caserma. La
domenica, verso sera, i militari hanno issata la bandiera bianca: ma
quando i compagni si sono avvicinati, li hanno accolti con una scarica.
Molti sono i caduti ma i più non si perdono di coraggio. La rivincita
dei nostri non si fa attendere. Un cannone vomita la sua mitraglia sui
traditori. La chiesa di Santa Madrona e la casa della Navigazione
Italiana sono bruciate. La mattina del 20 luglio tutti i nostri compagni
si trovano per abbattere l’ultimo ridotto dei faziosi. Tutti si
dimostrano valorosi. Ascaso perde la vita quel mattino indimenticabile.
Era inevitabile: combatteva come un illuminato, a petto scoperto. Anche
da morto conservava nel viso il sorriso della vittoria e la serenità del
dovere compiuto.
Tutti si comportarono da bravi, gli ignoti come i noti. Durruti,
che fu leggermente ferito; Garcia Oliver, Riera, Carreño, Ortiz,
Martinez, Patricio Navarro, Ruano, Aurelio Fernandez, Gordo, Manzana,
gli adolescenti della nostra Gioventù, la compagna Concha, e Palmira, e
la giovanetta Pilar Negrete, che rimase ferita in una barricata; e
un’altra giovane compagna della quale ignoro il nome, che, sfidando la
mitraglia, non cessava dall’andirivieni portando da bere ai combattenti.
Fu una mischia nella quale tutti furono all’altezza del momento
storico.
La situazione fu decisa e conclusa dall’operazione dei compagni del
camion. Questo veicolo, ricoperto di materassi già insanguinati in
precedenti combattimenti, e condotto dal compagno Subias, conteneva una
mitragliatrice operata dal mitragliere improvvisato Enrique Carrion, e i
compagni Juanel e Cubas armati di fucili, i quali avanzando dalla
Rambla fino al porto e fermandosi davanti alla parte vulnerabile della
caserma, scaricarono con precisione la mitragliatrice. I compagni che,
protetti dal camion, erano avanzati a piedi, secondarono l’opera della
mitragliatrice, e pochi momenti dopo il nemico issò la bandiera della
resa — che, questa volta, era autentica e definitiva.
[Mujeres Libres, luglio 1939]
… a Madrid
«L’hanno voluto. Davanti al fascismo, la rivoluzione». Questa è la parola d’ordine.
Le strade fremono. Migliaia e migliaia di lavoratori si raccolgono
negli Atenei, nei Circoli, davanti alle radio. Mezzo milione di operai
vigila, aspettando gli eventi. Ma quasi tutti sono inermi. Per tanti
uomini, per tante volontà ci sarà appena qualche centinaio di
rivoltelle. Ogni ora si ripete la invocazione insistente. Nelle vie
avvengono manifestazioni reclamanti con voce alta:
«Armi, armi; vogliamo armi!».
Casares Quiroga si è rinchiuso in un atteggiamento incomprensibile.
— Io non do un sol fucile. Questa è la rivoluzione!
(Per paura della rivoluzione si facilita il trionfo del fascismo.
Per paura del popolo si lascia che i militari trionfino in mezza Spagna.
Per la viltà di Casares Quiroga nel nostro paese è morto più di mezzo
milione di lavoratori).
Finalmente, non si sa da dove, escono da sé le prime armi. Casares
non ne ha dato l’ordine. Moles neppure. Ha dovuto essere qualche
militare lealista esasperato dalla stupidità e incoscienza del Governo.
Alle porte di alcuni Circoli Sociali, socialisti e comunisti, arrivano
camion carichi di fucili, che si distribuiscono rapidamente. Per la
C.N.T., per la F.A.I., per la Gioventù Libertaria, non ci sono armi
d’alcuna specie. Se le vogliono, dovranno conquistarsele offrendo il
petto al piombo.
Ma non tardano a comparire le prime armi. Un camion carico di
fucili passa per la Glorieta de Cuatro Caminos. Dove era diretto? Poco
importa. Un gruppo di compagni che s’è accertato del carico, rivoltelle
in pugno, assale il veicolo e in pochi minuti prende possesso dei fucili
che sono distribuiti tra i compagni di Cuatro Caminos e Tetuàn. Sono i
primi. Conquistati, non regalati. Sono primi fucili che, quella notte,
vigileranno intorno alle caserme dove guata il tradimento.
Madrid si sveglia al tuono del cannone, tra il rombo monotono degli
aeroplani e il tragico dialogar delle pistole e dei fucili. Per le vie
passano vetture cariche di operai armati che vanno o tornano dai punti
dove si combatte. Ragazzi armati vigilano le entrate della città. I
vetri s’infrangono allo scoppio dei mortai e delle bombe a mano. Dalla
sera si combatte senza interruzioni, si lotta a morte in cento punti
diversi. E non più solo intorno alle caserme. Ora si combatte nei
conventi e nelle chiese e nei palazzi. Sugli operai che difendono la
libertà, sui lavoratori che mettono a repentaglio la vita, sparano i
«sẽnoritos» nascosti negli appartamenti alti, trincerati nelle chiese
trasformate in fortezze. Nel corso della mattinata si presentano momenti
delicati e gravi. I «pacos» distraggono le nostre forze. Cercano di
deviare gli effettivi destinati a dar l’assalto alle caserme. Cercano di
disorientare, di sbaragliare gli uomini armati onde facilitare la
sortita di quei che difendono le caserme. Ma non vi riescono…
Intorno alla caserma de la Montaña sta il meglio dell’anarchismo
madrileno. Più di mille uomini si battono in prima fila. Alcuni hanno
armi, altri no. Gli inermi aspettano affannosamente la caduta del
compagno per raccogliere la sua rivoltella o il suo fucile e continuare a
sparare. È un valore che non conosce misura. Gli uomini avanzano, a
petto scoperto, sotto il fuoco concertato delle mitragliatrici fino alle
porte stesse della caserma, per mirare con sicurezza. Quando uno cade,
non importa. Quattro si contendono la sua arma, venti il suo posto.
Dentro la caserma è il fiore e la crema dell’esercito spagnolo. Vi
sono due reggimenti di fanteria, uno di zappatori e altri specialisti, e
oltre mille «sẽnoritos» fascisti. Vi sono: un generale, sette
colonnelli, quaranta comandanti e diverse centinaia di capitani, tenenti
e alfieri. Dentro ci sono, in tutto, circa quattromila uomini armati
fino ai denti; trincerati in un edificio forte, che domina tutto il
vicinato.
Fuori c’è il popolo. Intorno alla caserma possono essere tre o
quattro mila. Tra di loro si trovano guardie d’assalto, che combattono
con bravura. Si trovano operai socialisti, repubblicani, comunisti e
anarchici. Ci sono pure alcune mitragliatrici e vetture blindate.
Inoltre c’è un cannone del 10, che i lavoratori hanno trascinato qui,
non si sa da dove, e che spara a zero sulla caserma. Ma la maggior parte
degli assedianti è inerme. La lotta è diseguale. Ma mentre i traditori
han basso il morale, i lavoratori combattono con un entusiasmo
illimitato e con assoluta fede nella propria vittoria.
Gli assedianti hanno fretta di espugnare la caserma. Non sanno che
cosa avvenga negli altri punti. Si odono spari da ogni direzione. Anche
al Campamento e a Getafe si combatte. E nell’interno di Madrid?
Nell’interno schioccano senza interruzioni le pistole dei lavoratori
caricati nelle automobili e dei fascisti trincerati nei loro edifici. Ma
la conquista non è facile. C’è un momento in cui si crede raggiunta la
vittoria. Da una finestra aperta della caserma appare, come bandiera di
pace, un lenzuolo bianco. Il giubilo percorre la moltitudine.
«Son nostri!».
Come valanga i lavoratori si precipitano sulla caserma. Ma quando
le sono vicini, quando stanno per toccarla con mano, una raffica di
mitragliatrici abbatte le prime file. Bisogna retrocedere. Bisogna
continuare l’assedio, mirando bene, procurando di impiegare bene le
munizioni. Si combatte con rabbia, con odio, disperatamente. A poco a
poco il fuoco della caserma rallenta. Si vede che la resistenza cede,
che il morale dei faziosi declina, che non potranno resistere più a
lungo…
Sono le dodici meridiane del 20 luglio, quando incomincia l’assalto…
[Madrid Rojo y Negro, luglio 1939]
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