giovedì 25 agosto 2016

Tra il mito del post e il post utopico...

Si, avete ragione... anche se sento di aver una potenziale irragionevolezza nel postare anche scritti più o meno lunghi, la dicitura del post promette più un lampo che un diluvio, più una polveriera che l'incendio.

La battuta di Lino è strepitosa, se Guerra e Pace va in porto, io andrei alla deriva postando tutto lo Zibaldone di Giacomo Leopardi.

Con affetto,
Andrea
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Ascoltando il vento tra  i pini
Ma Lin

Caro Lino B.

d'ora in poi solo haiku!

...a proposito dei wall of text che ultimamente compaiono sul blog della Libreria...mi domandavo se....

... se non sia il caso di pubblicare nel blog un post creato con un copia/incolla dell'intero "Guerra e Pace", testo che e' ormai libero da copyright.
Lo si potrebbe esaurire agilmente in un paio di pause pranzo.

Baci.
L.

mercoledì 24 agosto 2016

Kasane Kurokami



i ciliegi punzecchiano il sole
mattino 
al Palazzo di Giada

Kasane Kurokami

Tra mito e utopia...

 
«L'uomo può costruire fuori di sé solo quello che ha innanzitutto concepito dentro di sé», ammoniva uno studioso. Per costruire un mondo senza autorità, bisogna prima concepirlo. Non programmarlo, schematizzarlo o misurarlo. No, solo concepirlo, nel suo duplice significato: pensarlo è fecondarlo. Ma per concepire un mondo che non sia un mero riflesso di quello circostante, occorre che la conoscenza corra sfrenata a saccheggiare gli arsenali della memoria e dell'immaginazione. La scoperta delle trasgressioni del passato dà spunti e suggerimenti indispensabili per riuscire ad immaginare e far immaginare una vita priva di rapporti di potere nel futuro. E viceversa. Allora, le esperienze del passato e le possibilità del futuro prendono appuntamento sul campo di battaglia del presente. Ed è qui che si incontrano il mito e l'utopia.
Per quanto entrambi si muovano sul filo dell'immaginazione, mito e utopia si collocano su versanti diametralmente opposti. Il mito è uno sguardo rivolto all’indietro, allude a una felicità perduta, è una narrazione di fatti mai avvenuti la cui funzione è quella di inventare un passato leggendario al fine di giustificare gli elementi fondamentali di un gruppo (spesso altrimenti insostenibili). L'utopia è uno sguardo rivolto in avanti, intravede una felicità potenziale, è un luogo che non esiste la cui funzione è quella di evocare un futuro appassionante al fine di affermare teorie e pratiche conseguenti (spesso altrimenti insostenibili). Per quanto possa apparire verosimile, il mito ha la consapevolezza di sguazzare nella finzione. Invece, per quanto possa apparire inverosimile, l'utopia ha la determinazione di bagnarsi nella verità. Sia il mito che l'utopia possono essere apprezzati o criticati. Il primo per il suo fascino o per il suo artificio, la seconda per la sua innovazione o per la sua illusione.
Sebbene entrambi nascano come negazione (della mediocrità) del presente, sia il mito che l'utopia non se ne estraniano mai del tutto. Il mito offre racconti del passato che permettono di comprendere il mondo qui ed ora; è «la perennemente rinnovata rivelazione di una realtà che permea l'individuo fino al punto da costringerlo a conformarvi il proprio comportamento» (Leenhardt). L'utopia descrive un mondo futuro che sollecita l'azione qui ed ora; è «quel tipo di orientamento che trascende la realtà e insieme spezza i legami dell'ordine esistente» (Mannheim).
Laddove non arriva la storia, nasce il mito. Ciò è ovvio, non ha senso criticarlo. Ma la bellezza e la forza dei miti non deve far cadere nella tentazione di crearli ed usarli a scopi politici. Perché non è certo un caso se il mito viene usato da forze reazionarie, mentre l'utopia ha fatto breccia in quelle rivoluzionarie. Stimolatori dell'immaginazione dall'effetto agente, il loro modo di intervenire sulla storia è di segno del tutto diverso. La caratteristica del mito è quella di fondarsi solo sul sentimento, in contrasto con la ragione, e in tal senso è un potente mezzo di controllo sociale. Perché viene trasmesso per tradizione, opera per suggestione, è al di là di ogni critica e discussione. Un mito lo si subisce, proprio come la religione. Ecco perché corrisponde così bene alle esigenze totalitarie.
È quanto non aveva capito Sorel, ad esempio, il quale sosteneva il mito contro l'utopia a fini rivoluzionari. Ai suoi occhi la potenza indiscussa del mito costituiva una scorciatoia perfetta per accelerare la trasformazione sociale, senza farle perdere tempo con teorie tutte da dimostrare. In quanto progetto, l'utopia può essere ponderata, criticata, modificata e confutata, mentre il mito non si può rifiutare essendo l'oscura volontà delle masse («è l'insieme del mito che conta… non è quindi di alcuna utilità ragionare»). Egli definiva il mito politico «un'organizzazione di immagini capaci di evocare istintivamente tutti i sentimenti che corrispondono alle diverse manifestazioni della guerra intrapresa». I miti quindi «non sono descrizioni di cose vere», ma esprimono «la volontà d'un gruppo che si prepara alla lotta». Non hanno nulla a che fare con la verità dei pensieri, solo con la forza degli istinti.
Queste sue parole, redatte nel 1906, non aiutarono a provocare uno sciopero generale, scintilla della rivoluzione sociale. In compenso, verranno assai bene messe in pratica dai regimi totalitari. Questo perché il sentimento, quando viene staccato da ogni consapevolezza e lasciato in pasto ai soli istinti, diventa facilmente manipolabile. Come osservava Jung: «Con lo spirito del tempo non è lecito scherzare: esso è una religione, o meglio ancora una confessione, un credo, a carattere completamente irrazionale, ma con l’ingrata proprietà di volersi affermare quale criterio assoluto di verità, e pretende di avere per sé tutta la razionalità. Lo spirito del tempo si sottrae alle categorie della ragione umana. Esso è un’inclinazione, una tendenza di origine e natura sentimentali, che agisce su basi inconsce esercitando una suggestione preponderante sugli spiriti più deboli e trascinandoli con sé».
Quando Mussolini si vantava: «noi abbiamo creato un nostro mito. Il mito è una fede, è una passione. Non è necessario che sia una realtà. È una realtà nel fatto che è un pungolo, che è una speranza, che è fede, che è coraggio»; quando Goebbels precisava: «noi non parliamo per dire qualcosa, ma per ottenere un certo effetto»; quando i fascisti esaltavano la politica come «audacia, come tentativo, come impresa, come insoddisfazione della realtà, come avventura, come celebrazione del rito dell'azione»; si stavano tutti rivolgendo a quanti erano disponibili a scattare in preda alle narrazioni, perché refrattari ad agire sulla spinta delle riflessioni. Alla massa, al popolo, alla collettività: ad una manovalanza di abbrutiti.
Come in molti hanno fatto notare, è proprio quando la cosiddetta crisi sociale è forte (e i nemici sono alle porte) che il mito politico si fa preponderante rispetto alla razionalità. E quale ragione, quale coscienza possono sussistere oggi, in un'epoca di perdita del linguaggio e di erosione del significato, di tracolli economici e di esodi di massa? Senza considerare l'indigenza materiale e intellettuale, il frenetico sviluppo tecnologico, con la sua velocità e pervasività, impedisce all'individuo di interiorizzare ed elaborare una propria visione del mondo, non permettendogli una scelta critica autonoma e facendolo soccombere all’ipertrofia di una realtà circostante diventata troppa.
Ciò spiega perché oggi la narrazione mitopoietica abbia preso il posto del vecchio determinismo. Entrambi sollevano l'individuo dal gravoso compito di conoscere e di riflettere, lasciandolo in balìa del sentire l'imperativo di un destino sovrastante. Ma la mitopoiesi moderna ha fatto un salto terrificante rispetto a quella antica. Non si accontenta di inventare leggende sul passato remoto, laddove è impossibile stabilire la verità storica. No, trasforma in mito anche i fatti più recenti, facendo quindi della finzione una virtù e della verità un vizio. Dai palcoscenici del potere ci sono venuti a raccontare, per esempio, che Sacco e Vanzetti non sono stati mandati sulla sedia elettrica per via delle loro idee anarchiche, bensì per le loro origini italiane. In questa maniera è l'orgoglio nazionale a venire stimolato, il patriottismo, non certo l'ostilità verso lo Stato. Allo stesso modo dalle latrine del movimento ci sono venuti a raccontare, per esempio, che negli anni 70 non c'erano organizzazioni politico-militari composte da militanti marxisti-leninisti, bensì bande di allegri avventurieri. In questa maniera nei confronti di chi ha ambizioni autoritarie viene sollecitata l'ammirazione, non certo il disprezzo o la distanza.
Ma la narrazione mitologica in cosa si differenzia dal revisionismo storiografico? Quest'ultimo non è forse una «narrazione storica capace di divenire momento di suggestione o di coagulo, di spinta o di risultato, per una lettura e visione del passato facilmente spendibile e utilizzabile sul terreno politico o comunque nell'arena pubblica»? Se si giustifica il ricorso all’adulterazione, allora perché scandalizzarsi di fronte alla narrazione fascista sulle foibe? Evidentemente non perché essa sia sostanzialmente falsa, ma solo perché l'uso strategico della menzogna viene qui messo al servizio dell'estrema destra anziché dell'estrema sinistra.
Certo, è impossibile negare che un qualche aspetto mitologico sia pressoché inevitabile in ogni rievocazione del passato, per quanto rigorosa ed accurata sia. La memoria, così come la ricerca storica, sono pur sempre di parte, esercitate da individui in carne e ossa con le proprie passioni e convinzioni. Perciò sono selettive e tendono a correggere i fatti, a dilungarsi sui meriti che più stanno a cuore e a liquidare i demeriti che più causano imbarazzo, ingigantendo i primi e sminuendo i secondi. Ma se lievi esagerazioni, in eccesso come in difetto, possono essere comprensibili e giustificabili, non per questo è da apprezzare e teorizzare una loro proliferazione.
Leggere i molti testi autobiografici di chi ha combattuto sulle barricate può essere esaltante, nessuno lo nega. Ma assai più istruttivi sono quei pochi libri che hanno cercato di esaminare gli errori commessi durante le rivoluzioni. Le emozionanti memorie di comunardi hanno conosciuto molte più traduzioni e ristampe del «manuale pratico degli errori» scritto da Jules Andrieu (delegato ai Servizi pubblici della Comune, nonché amico di Varlin e di Verlaine) come contributo alla comprensione di quanto accaduto. Il mito della Comune non ne perpetua solo l'entusiasmo, ma anche i limiti. Come premessa ad una futura riscossa ci vuole ben altro; non la suggestione, ma la riflessione. Ovvero una Comune senza mito.
Allo stesso modo la lettura di un libro come quello di Vernon Richards sugli insegnamenti della rivoluzione spagnola è in un certo senso più necessaria di quella delle varie biografie di anarchici pistoleri e dinamitardi. Nel 1956, ventesimo anniversario della rivoluzione spagnola ed anno dell'insurrezione ungherese, Louis Mercier raccomandava di evitare «le narrazioni che trasfigurano il passato e forniscono un alibi alla nostra fatica odierna. Quando rimangono solo santini, il tradimento di chi è sopravvissuto è acquisito». Nel suo rifiuto della leggenda egli affermava che «il primo compito necessario al nostro equilibrio è quello di riesaminare la guerra civile sui documenti e sui fatti, e non di coltivarne la nostalgia con le nostre esaltazioni. Compito che non è mai stato condotto con consapevolezza e coraggio, perché avrebbe indotto a mettere a nudo non solo le debolezze e i tradimenti degli altri, ma anche le nostre illusioni ed incapacità, di noi libertari». (...)

Una sfida alla miseria del presente, non una sua affabulatoria edulcorazione. Un pensiero per sollevare i deboli e minacciare i potenti, non una suggestione per trascinare i primi e licenziare i secondi. L'utopia è l'esatto contrario del mito. Formula un progetto, è l'espressione di una volontà cosciente e ponderata, tende a una prova dei fatti, si sottopone alla critica e al dibattito. Non mistifica la verità, la cerca. L'ebbrezza della sua seduzione accompagna la fondatezza della sua ragione, non la sostituisce.
Una volta creata nella propria mente, l'utopia inizia a vagliare i pensieri e le azioni. Diventa etica. Non si accontenta della rilassatezza della verosimiglianza, esige la tensione della coscienza. Perché l'utopia non cade dal cielo o prorompe dalla terra, già bella e pronta. E non è il destino inevitabile che ci aspetta. La si costruisce. Per realizzarla nella storia bisogna incarnarla nella propria vita. Non si arriva all'utopia attraverso il realismo, non si arriva alla libertà attraverso l'autorità. Con un mito costruito con parole e diffuso attraverso la stampa e la radio, un pugno di ingegneri di anime ha fatto fare in passato il passo dell'oca alle popolazioni di mezza Europa. Oggi, con un mito costituito soprattutto da immagini e diffuso attraverso la stampa, la radio, la televisione ed internet, battaglioni di ingegneri di anime possono far fare lo struscio del verme all'intera umanità. Contro il mito, l'utopia necessita che tutti siano consapevoli. Consapevoli dei fini da raggiungere quanto dei mezzi da impiegare — dai flauti ideali ai martelli materiali. Tutto ciò, oltre a non essere realistico, non è di certo attuale. Ma l'attualità è qualcosa che solo il pubblico segue. Fuori dal pubblico, la si crea.

Aprirsi alla vita, non chiudersi nell'ignoranza...

 https://collafenice.files.wordpress.com/2016/05/polit3_bn.jpg?w=370

A chi vuole cancelli per i parchi, frontiere fra territori e divide gli individui in bianchi e neri...

... I folli aprono le strade che poi i prudenti seguiranno

martedì 23 agosto 2016

Sallustio e le Storie

Trovate, se potete, una definizione più significativa del mito:

"Queste storie non avvennero mai, ma sono sempre"

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A tutti gli amici che ancora non sono riusciti a schiodarsi da dove abitualmente stanno

la ragazzina con i capelli rossi

Ciao, Donna

VIAGGIO AMERICANO, Fernanda Pivano


Loro passaporto era una bella poesia, loro credo era la speranza in un mondo privo di guerre, loro sostegno era l’energia vitale, loro metro di giudizio era la creatività, loro programma era la fine delle dittature. […] A fare da guida, da stimolo, da speranza era il fantasma inafferrabile della libertà.

 Naturalmente [i beat] erano degli outcasts, dei fuorilegge esiliati in una cultura ostile, artisti respinti che scrivevano solo per sé, nella realtà circostante delle esplosioni nucleari, del condizionamento esercitato dai media, della sopraffazione di una tecnologia imperante, dell’isterismo anticomunista.




Jack Kerouac gli chiese perché in quelle pagine avesse descritto tanti ragazzi impiccati nelle cantine. “Non lo so”, rispose [Borroughs]. “Ricevo questi messaggi da altri pianeti. Sto liberandomi della mia educazione. È una catarsi, dico le cose più orribili che riesco a immaginare.”

lunedì 22 agosto 2016

Sulla Spagna ribelle del '36...

Da Barcellona...
Venerdì, 16 luglio. Nelle sedi sindacali, nelle redazioni della nostra stampa e nel riunioni si vedono facce gravi. Durante la notte non si dorme. Si vigilano le mosse del nemico.
Nel Marocco è scoppiato il movimento e Franco è padrone del territorio. La notizia non è ufficiale, ma è certa.
— Ci sono armi, compagno?
— Poche; ma non t’allarmare, le troveremo.
17 luglio. Un’altra notte di tensione e di attesa, ma anche d’attività. I militanti dei Trasporti Marittimi hanno ben lavorato. Sanno dell’arrivo di un carico d’armi e, con audacia, se ne appropriano. Juan Yague, morto per la gloria della Rivoluzione, si moltiplicava di energia.
La notizia delle armi è trapelata alla polizia e al governo. Alle cinque del mattino le autorità vanno al porto per riprenderle.
Nella Rambla c’è animazione. Molti compagni affluiscono per offrire i loro servizi. Ascaso, l’eroico, passa assorto. Lo interroghiamo:
— Non ci sono novità. Abbiamo potuto salvarne una parte — risponde con la sua aria serena.
Passa una vettura pel trasporto del latte. Son le armi che vanno. Se n’è salvata una parte.
18 luglio. Alle nove di sera si presenta Durruti nella redazione di Tierra y Libertad. È entusiasta, raggiante e, col suo sorriso indimenticabile, dice:
— All’erta, compagni. Alle dodici in Costruccion. Lì vi saranno date le indicazioni su quel che c’è da fare. Io, per parte mia, sono preparato. Guardate.
E ci mostra due rivoltelle che gli pendevano dalla cintura.
Notti di effervescenza; chi va e chi viene; riunioni; ansia ed entusiasmo; molto entusiasmo.
19 luglio. Fa giorno. I bandi militari sono stati strappati. Gli aeroplani rombano nel cielo di Barcellona. La fucileria, in ogni parte della città, è enorme. Finalmente, i fascisti mostrano la faccia. La battaglia minaccia di essere dura e vasta. Le armerie sono invase; i vetri infranti ingombrano le strade. Si distribuiscono armi corte, lunghe, schioppi da caccia, pistoloni del tempo di Maria Cristina, rivoltelle da ragazzi, pugnali, coltelli, in una parola, tutto ciò che può servire a combattere.
In piazza Catalogna si lotta per espugnare la Telefonica. In piazza dell’Università, la Guardia Civil impegna battaglia con le truppe della reazione. Nei quartieri proletari si combatte con accanimento. Le truppe uscite dalla caserma Pedralbes per occupare Piazza Badia sono attaccate e sconfitte. I faziosi si fortificano nell’Hotel Ritz, in vari conventi e in certe chiese. All’Atarazanas la mischia è più aspra. I militari, protetti da una muraglia enorme, solidissima, sono quasi invincibili. Qui il fuoco incomincia con le prime ore del mattino. I rivoluzionari sono mitragliati con abbondanza di munizioni dalla caserma, dal vecchio edificio della Auditoria Militar, dalla Casa della Navigazione Italiana, dalla Banca di Spagna e dalla chiesa di Santa Madrona. Alle nove, vari soldati e ufficiali fanno la loro apparizione nella Rambla. I compagni danno l’allarme: la truppa avanza! Ma subito si vedono soldati e capi mostrar fazzoletti bianchi di pace. Talvolta la voce dei compagni dice: «Non sparate, compañeros, arrendetevi, venite con noi!». E poi soldati e lavoratori si abbracciano fra grida di entusiasmo e lacrime di commozione. È un momento d’ineffabile grandiosità. Il fuoco ricomincia. I faziosi, arrabbiati, sparano senza sosta, ma i nostri non scherzano e rispondono con energia.
Nella Capitaneria General, Goded resiste senza troppo ardore. Un paio di cannonate ben dirette decidono del conflitto, e il generale si arrende dopo poche ore dal principio delle ostilità e dall’arrivo dell’aeroplano che l’ha portato da Majorca.
Arresosi il primo baluardo del militarismo, tutto il grande e solido apparato costruito durante il biennio negro vacilla e crolla. Sono le undici antimeridiane del 19 luglio, e la Telefonica si è arresa. Così pure l’Hotel Colon. Più tardi si arrende l’Università. Il fascismo è virtualmente sconfitto, a Barcellona. Gli assalti alle case dove s’erano fortificati i faziosi, a quelle dei potentati, gli incendi alle chiese e ai conventi si succedono senza interruzioni. Dal cader della notte, grandi incendi illuminano la città. All’infuori dei bagliori del fuoco, Barcellona è avvolta nella completa oscurità. Gruppi di compagni armati percorrono le strade. Senza tregua s’ode la consegna: «C.N.T.! C.N.T.!» accompagnata da evviva e dai colpi dell’Atarazanas.
20 luglio. La battaglia continua presso questa caserma. La domenica, verso sera, i militari hanno issata la bandiera bianca: ma quando i compagni si sono avvicinati, li hanno accolti con una scarica. Molti sono i caduti ma i più non si perdono di coraggio. La rivincita dei nostri non si fa attendere. Un cannone vomita la sua mitraglia sui traditori. La chiesa di Santa Madrona e la casa della Navigazione Italiana sono bruciate. La mattina del 20 luglio tutti i nostri compagni si trovano per abbattere l’ultimo ridotto dei faziosi. Tutti si dimostrano valorosi. Ascaso perde la vita quel mattino indimenticabile. Era inevitabile: combatteva come un illuminato, a petto scoperto. Anche da morto conservava nel viso il sorriso della vittoria e la serenità del dovere compiuto.
Tutti si comportarono da bravi, gli ignoti come i noti. Durruti, che fu leggermente ferito; Garcia Oliver, Riera, Carreño, Ortiz, Martinez, Patricio Navarro, Ruano, Aurelio Fernandez, Gordo, Manzana, gli adolescenti della nostra Gioventù, la compagna Concha, e Palmira, e la giovanetta Pilar Negrete, che rimase ferita in una barricata; e un’altra giovane compagna della quale ignoro il nome, che, sfidando la mitraglia, non cessava dall’andirivieni portando da bere ai combattenti. Fu una mischia nella quale tutti furono all’altezza del momento storico.
La situazione fu decisa e conclusa dall’operazione dei compagni del camion. Questo veicolo, ricoperto di materassi già insanguinati in precedenti combattimenti, e condotto dal compagno Subias, conteneva una mitragliatrice operata dal mitragliere improvvisato Enrique Carrion, e i compagni Juanel e Cubas armati di fucili, i quali avanzando dalla Rambla fino al porto e fermandosi davanti alla parte vulnerabile della caserma, scaricarono con precisione la mitragliatrice. I compagni che, protetti dal camion, erano avanzati a piedi, secondarono l’opera della mitragliatrice, e pochi momenti dopo il nemico issò la bandiera della resa — che, questa volta, era autentica e definitiva.
[Mujeres Libres, luglio 1939]
… a Madrid
«L’hanno voluto. Davanti al fascismo, la rivoluzione». Questa è la parola d’ordine.
Le strade fremono. Migliaia e migliaia di lavoratori si raccolgono negli Atenei, nei Circoli, davanti alle radio. Mezzo milione di operai vigila, aspettando gli eventi. Ma quasi tutti sono inermi. Per tanti uomini, per tante volontà ci sarà appena qualche centinaio di rivoltelle. Ogni ora si ripete la invocazione insistente. Nelle vie avvengono manifestazioni reclamanti con voce alta:
«Armi, armi; vogliamo armi!».
Casares Quiroga si è rinchiuso in un atteggiamento incomprensibile.
— Io non do un sol fucile. Questa è la rivoluzione!
(Per paura della rivoluzione si facilita il trionfo del fascismo. Per paura del popolo si lascia che i militari trionfino in mezza Spagna. Per la viltà di Casares Quiroga nel nostro paese è morto più di mezzo milione di lavoratori).
Finalmente, non si sa da dove, escono da sé le prime armi. Casares non ne ha dato l’ordine. Moles neppure. Ha dovuto essere qualche militare lealista esasperato dalla stupidità e incoscienza del Governo. Alle porte di alcuni Circoli Sociali, socialisti e comunisti, arrivano camion carichi di fucili, che si distribuiscono rapidamente. Per la C.N.T., per la F.A.I., per la Gioventù Libertaria, non ci sono armi d’alcuna specie. Se le vogliono, dovranno conquistarsele offrendo il petto al piombo.
Ma non tardano a comparire le prime armi. Un camion carico di fucili passa per la Glorieta de Cuatro Caminos. Dove era diretto? Poco importa. Un gruppo di compagni che s’è accertato del carico, rivoltelle in pugno, assale il veicolo e in pochi minuti prende possesso dei fucili che sono distribuiti tra i compagni di Cuatro Caminos e Tetuàn. Sono i primi. Conquistati, non regalati. Sono primi fucili che, quella notte, vigileranno intorno alle caserme dove guata il tradimento.
Madrid si sveglia al tuono del cannone, tra il rombo monotono degli aeroplani e il tragico dialogar delle pistole e dei fucili. Per le vie passano vetture cariche di operai armati che vanno o tornano dai punti dove si combatte. Ragazzi armati vigilano le entrate della città. I vetri s’infrangono allo scoppio dei mortai e delle bombe a mano. Dalla sera si combatte senza interruzioni, si lotta a morte in cento punti diversi. E non più solo intorno alle caserme. Ora si combatte nei conventi e nelle chiese e nei palazzi. Sugli operai che difendono la libertà, sui lavoratori che mettono a repentaglio la vita, sparano i «sẽnoritos» nascosti negli appartamenti alti, trincerati nelle chiese trasformate in fortezze. Nel corso della mattinata si presentano momenti delicati e gravi. I «pacos» distraggono le nostre forze. Cercano di deviare gli effettivi destinati a dar l’assalto alle caserme. Cercano di disorientare, di sbaragliare gli uomini armati onde facilitare la sortita di quei che difendono le caserme. Ma non vi riescono…
Intorno alla caserma de la Montaña sta il meglio dell’anarchismo madrileno. Più di mille uomini si battono in prima fila. Alcuni hanno armi, altri no. Gli inermi aspettano affannosamente la caduta del compagno per raccogliere la sua rivoltella o il suo fucile e continuare a sparare. È un valore che non conosce misura. Gli uomini avanzano, a petto scoperto, sotto il fuoco concertato delle mitragliatrici fino alle porte stesse della caserma, per mirare con sicurezza. Quando uno cade, non importa. Quattro si contendono la sua arma, venti il suo posto.
Dentro la caserma è il fiore e la crema dell’esercito spagnolo. Vi sono due reggimenti di fanteria, uno di zappatori e altri specialisti, e oltre mille «sẽnoritos» fascisti. Vi sono: un generale, sette colonnelli, quaranta comandanti e diverse centinaia di capitani, tenenti e alfieri. Dentro ci sono, in tutto, circa quattromila uomini armati fino ai denti; trincerati in un edificio forte, che domina tutto il vicinato.
Fuori c’è il popolo. Intorno alla caserma possono essere tre o quattro mila. Tra di loro si trovano guardie d’assalto, che combattono con bravura. Si trovano operai socialisti, repubblicani, comunisti e anarchici. Ci sono pure alcune mitragliatrici e vetture blindate. Inoltre c’è un cannone del 10, che i lavoratori hanno trascinato qui, non si sa da dove, e che spara a zero sulla caserma. Ma la maggior parte degli assedianti è inerme. La lotta è diseguale. Ma mentre i traditori han basso il morale, i lavoratori combattono con un entusiasmo illimitato e con assoluta fede nella propria vittoria.
Gli assedianti hanno fretta di espugnare la caserma. Non sanno che cosa avvenga negli altri punti. Si odono spari da ogni direzione. Anche al Campamento e a Getafe si combatte. E nell’interno di Madrid? Nell’interno schioccano senza interruzioni le pistole dei lavoratori caricati nelle automobili e dei fascisti trincerati nei loro edifici. Ma la conquista non è facile. C’è un momento in cui si crede raggiunta la vittoria. Da una finestra aperta della caserma appare, come bandiera di pace, un lenzuolo bianco. Il giubilo percorre la moltitudine.
«Son nostri!».
Come valanga i lavoratori si precipitano sulla caserma. Ma quando le sono vicini, quando stanno per toccarla con mano, una raffica di mitragliatrici abbatte le prime file. Bisogna retrocedere. Bisogna continuare l’assedio, mirando bene, procurando di impiegare bene le munizioni. Si combatte con rabbia, con odio, disperatamente. A poco a poco il fuoco della caserma rallenta. Si vede che la resistenza cede, che il morale dei faziosi declina, che non potranno resistere più a lungo…
Sono le dodici meridiane del 20 luglio, quando incomincia l’assalto…
[Madrid Rojo y Negro, luglio 1939]

Kyralina - Eduardo de Guzman

Vita di Milarepa. I suoi delitti, le sue prove, la sua liberazione, Adelphi





Milarepa,
tempera su cotone,
Otgonbayar Ershuu
Domenica 18 settembre dalle ore 10:00, pranzo sociale all'Arci di Persichello.



L'incontro, in collaborazione con Alternativa Libertaria, sarà occasione di riflessione ad ottant'anni dalla guerra civile di Spagna.
Verrà inoltre presentato il libro "Maquis dimenticato - La lunga resistenza degli anarchici spagnoli" di Lorenzo Micheli.

pagina facebook

Aperitivo letterario, Arci Persichello, Domenica 11 Settembre

Domenica 11 settembre dalle ore 19:00, torna l'appuntamento degli aperitivi letterari dell'Arci di Persichello, tema per l'incontro saranno pirati, corsari e filibustieri!
pagina facebook



 
viva il burkini
kk
le babe devi star a casa
a far de magnar
a cusir calzini
(per no dir de godibili atenzioni)




domenica 21 agosto 2016

Siamo tutti transessuali!

In seguito all'uccisione di Hande Kader, una delle tante persone che vivono una libera sessualità e che lottano per una prospettiva di armonia.

 

E' tempo di frenare la macchina del sistema e arrestarla: è tempo di (ri)conquistare il pianeta e noi stessi, se non vogliamo che la macchina che l'uomo ha costruito, e che si è poi autonomatizzata volgendoglisi contro, finisca davvero per provocare una completa catastrofe. Adeguarsi al sistema significa accettare lo sterminio che contro di noi esso sta perpetrando; vuol dire farsene complici.

Il tempo stringe: nè si può più sostenere il potere sotto sotto continuando a identificarsi con una Norma sessuale che gli è funzionale e consona, che ci separa gli uni dagli altri e le une dalle altre poichè si regge sulla condanna dell'omosessualità, che ci separa gli uni dalle altre perchè contrappone gli uomini alle donne, che ci separa da noi stessi poichè si fonda sulla repressione del nostro desiderio polimorfo, ricchissimo, transessuale.

Mario Mieli,
Elementi di critica omosessuale
1977








venerdì 19 agosto 2016

"A New York si gela, noi abbiamo bisogno del riscaldamento globale!", Donald Trump

Azione del Collettivo Anarchico "INDECLINE"https://encrypted-tbn1.gstatic.com/images?q=tbn:ANd9GcRHwh_g4-K8if_P9JUhLI_EwXPegxa9e0ZOGYaioc-srWNFRo6R

Statue di Donald Trump in molte città americane: l'arte ritorna? (azione del Collettivo anarchico "INDECLINE")

Max Stirner, un mondo altro

 

«Di tutte le azioni, quelle secondo un fine vengono capite meno di tutte, poiché esse sono state sempre considerate come le più comprensibili e, per la nostra coscienza, sono la cosa più quotidiana che vi sia. I grandi problemi se ne stanno sulla strada».

(F. Nietzsche, Aurora, II, 127)

 

Introduzione


Nessun libro come questo ha forse meno bisogno di una introduzione. Si presenta da solo, come ogni libro maledetto che si rispetti. Ne consegue che molti, se non proprio tutti, prima di prenderlo in mano, oppure dopo averlo letto anche più volte con supponenza, credono di sapere la potenziale dirompenza contenuta nelle sue pagine. Non è così. E non è nemmeno questione di capire quello che Stirner dice, entrando fra la spesso non facile tecnica di datate discussioni filosofiche. Piuttosto si tratta di quello che uno intende fare della propria vita.

Ebbene, può un libro avere a che fare con la vita di chi lo legge? Quasi sempre no, rarissimamente sì. L’“unico” è uno dei pochi casi in cui questa affermazione assume le caratteristiche di un estremo coinvolgimento. O questo c’è, penetrando fino in fondo, fino alle lacrime, nelle nostre miserie quotidiane, oppure è bene che riponiamo il libro nello scaffale da cui lo abbia improvvidamente prelevato.

Pochi altri libri hanno questa carica distruttiva da cui – più o meno – tutti dobbiamo difenderci se non vogliamo mettere a soqquadro le nostre regole e i nostri soliloqui quotidiani, conforti per moribondi quasi sempre. Se accettiamo la sfida, allora è un altro discorso.

Naturalmente abbiamo un’altra soluzione, quella di tornare indietro, e qualche volta la cosa è accaduta anche ad infuocati stirneriani di lungo corso, che si erano sentiti torcere le budella per tanti anni, fin da quando la loro barba stentava a presentarsi sulle guance mai rasate.

Pochezza dell’animo umano. No. Direi, naturale svolgimento degli equivoci e delle esperienze che impregnano la vita come uno straccio da rigovernatura.

Se Stirner ci dice qualcosa, e la dice fuori dei denti, al di là di qualsiasi biforcuta formulazione filosofica, riguarda l’unicità della nostra vita, il modo in cui possiamo costruirla, fornirla di connotazioni qualitativamente significative, evitando di trasformarla in una serie di acquisizioni e di possessi che ci fanno morire a poco a poco senza darci molto in cambio.

Quella “proprietà” che costituisce l’“unico” è proprio la sua esperienza qualitativa. Qui si sono smarrite tante coscienze rivoluzionarie, partite col piede giusto, con le letture ortodossamente fondate delle tesi di Stirner, ed atterrate col piede sbagliato nel territorio dell’assommazione dove tutte le vacche sono grigie nel far della sera.

Perché? Facile la risposta. Perché i risultati immediati, quelli tangibili, quelli imposti dal buonsenso dilagante, della misurazione in centimetri dell’andare avanti, se non in millimetri, si impongono e fanno perdere il senso del ridicolo che, in fondo, dovrebbe potersi ricavare dalle tante battute umoristiche che lo stesso Stirner dedica agli spettri e ai fantasmi del suo tempo. Simili ectoplasmi non è che poi siano tanto diversi ai nostri giorni, è sempre la solita melma, il solito imbroglio “politico”.

Ma che c’entra la politica con chi pensa di essere rivoluzionario? Lasciamo da parte Stirner – consentitecelo solo per un momento – anche chi non lo digerisce non per questo è un miope accumulatore di consensi e di collezioni di figurine e pupazzetti, può benissimo essere un rivoluzionario con altre idee, quali resta da vedere, comunque diamole per buone almeno per quel momento di sospensione che ci siamo concessi. Non siamo ancora al di là delle colonne d’Ercole della politica, siamo al di qua. Possiamo fare progetti sbagliati, ma che restano rivoluzionari perché sono nostri progetti e non prevedono né l’avallo né la condiscendenza di forze che della politica hanno fatto la loro stessa ragione di esistere. Andando oltre, la melma rende l’atmosfera irrespirabile. In altri termini, sembra che si vada avanti, verso la costruzione di un movimento che riesce a contrastare il nemico, ma tutto si risolve in un balletto di comparse che gridano forte solo per farsi sentire prima di tutti da loro stesse, per dichiarare la propria esistenza in vita.

Stirner e il suo libro sono lontani da tutto ciò. Mantengono una dirittura e una scelta che non ammettono cedimenti. Per questo si sono attirati, nel corso del tempo, gli strali di tutti coloro che li hanno visti come sovvertitori di ogni tipo di ordine costituito, perfino di quell’ordine logico che è la base di tutti gli altri.

Che me ne faccio della logica, sia pure di quella stirneriana, afflitta, per non dire altro, da una certa tabe dialettica, se poi non sono capace di giocarmi la vita e tiro al risparmio allo scopo di tesaurizzare quella crescita quantitativa che dovrebbe condurre il movimento rivoluzionario alla distruzione del nemico, a poco a poco, a piccoli passettini, mostrando muscoli e petti gonfi che ormai fanno solo sorridere.

In effetti, è che la melma politica, una volta che ci si mette il piede sopra, è come le sabbie mobili, ti tira giù e non si riesce facilmente a cavarsene fuori.

O, forse, il paragone non è azzeccato. Molti vivono questa soffusa bambagia in cui si sono andati a cacciare come una coltre di riconoscimenti che giustifica e regge il proprio comportamento. Che importa che a riconoscerci siano forze ben piantate nel terreno politico? Sempre di un riconoscimento si tratta. Trovarsi a tu per tu con il nulla non è piacevole per nessuno, nemmeno per i tanti sapienti frequentatori di sofismi filosofici di stampo più o meno giovane-hegeliano.

L’“unico”, se vogliamo, dice una sola cosa, ma la dice bene e fino in fondo. La responsabilità dell’esistenza dello sfruttatore è dello sfruttato. Se questo vuole veramente sbarazzarsi del padrone che tiranneggia – come di ogni manutengolo che serve il tiranno anche sotto le spoglie di un feroce rivoluzionario – non ha che farlo e basta, stare a chiacchierare a lungo su questo argomento è una presa in giro.

Che ogni compagno si renda conto di questa verità e che ci rifletta sopra. Il senso dell’“unico” sta tutto qui.

Pubblichiamo la terza edizione di quest’opera convinti di mettere a disposizione dei compagni uno strumento di liberazione, non solo un certo numero di fogli di carta stampati più o meno bene.

Con buona pace di chi ha pensato che accanto alla selvaggia solitudine di Stirner ci potesse stare una qualche cattiva compagnia.

 Signore, Signori,
 I sogni sono il genere; l'incubo, la specie. Parlerò dei sogni e, poi, degli incubi.
 In questi giorni stavo rileggendo dei libri di psicologia. E mi sono sentito singolarmente defraudato. In tutti si parlava dei simboli o degli argomenti dei sogni (giustificherò più avanti questa parola) e non si parlava di ciò che desideravo, del meraviglioso,dello strano fatto di sognare.
Così, in un libro di psicologia che apprezzo molto, The Mind of Man, di Gustav Spiller, si diceva che i sogni corrispondono al gradino più basso dell'attività mentale - cosa che personalmente ritengo errata - e si parlava delle incongruenze, delle illogicità delle fiabe dei sogni.
Voglio ricordare Groussac, e il suo ammirevole studio (magari potessi ricordarlo e ripeterlo qui) Entre sueños. Groussac, alla fine di questo studio contenuto nella sua opera El viaje intellectual, credo nel secondo volume, dice che è meraviglioso il fatto che ogni mattina ci si svegli giudiziosi -o, quanto meno, abbastanza giudiziosi- dopo essere passati attraverso le zone d'ombra e i labirinti dei sogni.


tratto da Sette Notti, J L. Borges




vignetta da Nav Sam, di Olivier Gautier

giovedì 18 agosto 2016

La libraia

La libraia deve ammettere che, talora, leggendo i vari post che vengono liberamente postati sul blog, di cui si annoierebbe mortalmente di avere l'esclusiva, subisce degli choc.

Bene: tutto sommato la libraia è pronta a subirli e spera anche di divertirsi.

Agamben, la devozione per il potere

Avete presente il giochetto delle associazioni di parole, quando alla proposizione di un termine la mente umana ne abbina un altro strappandolo dall'inconscio, dalla memoria o da chissà dove? Funziona anche con i nomi. Io, ad esempio, faccio sempre un accostamento bizzarro. Ogni volta che viene evocato uno dei più celebri filosofi italiani viventi, davanti ai miei occhi egli compare puntualmente accompagnato da un oscuro anarchico francese dell'800. È un vero e proprio riflesso condizionato il mio, di cui non riesco a liberarmi, sebbene non sia difficile capire che non ci sono proprio relazioni fra il cattedratico Giorgio Agamben ed il proscritto Ernest Coeurderoy. Eppure...

Per fortuna so bene qual è il motivo per cui mi succede questo, non occorre che mi rivolga ad uno psicanalista. Non c'è alcun rimosso da far riaffiorare, ricordo perfettamente quando è iniziato questo abbinamento. Stavo sfogliando un libro di Coeurderoy quando mi sono imbattuto in queste parole: «Leggere troppo è non voler mai negare niente e non voler mai affermare niente. L'estrema erudizione, come la primitiva ignoranza, generano il Mutismo stupido o la Chiacchiera delirante. Chi vuole sapere troppo si annichilisce tanto quanto chi non vuole imparare nulla... Fra noi occidentali, la sapienza è diventata talmente endemica che non sapremmo fare un articolo di almanacco senza risalire alle dottrine di Platone, e senza appoggiare i gomiti su colonne di cifre. E che dire dei giornali? Per azzardare sulle loro colonne un'opinione sul passaggio del Prut, è indispensabile prima fare la storia dei Cosacchi a partire da Rurick, e soprattutto non pronunciarsi sul passaggio del Prut». È la più perfetta e piacevole descrizione dell'imbecillità erudita che abbia mai letto.

Una volta entrate nella mia testa, queste parole hanno cercato un esempio concreto con cui raffigurarsi ed è subito apparso lui. Mi sembrava di averlo davanti, l'autore della summa Homo sacer. Uno che, quale che sia l'argomento su cui si esprime, è capace di prenderlo alla larga, da Paolo di Tarso preferibilmente, ne scandaglia l'antica origine per poi bearsi a lungo in compagnia di filosofi nazisti quali Schmitt ed Heidegger — ognuno sceglie il proprio arsenale da saccheggiare —, per poi buttarsi nelle braccia di quei filosofi transalpini alla Foucault specializzati nella «sovversione sovvenzionata». Il che va benissimo quando si intende solo filosofare. Ognuno ha i suoi passatempi; c'è chi si sbronza, chi fa rissa in piazza o allo stadio, chi si dedica al porno. Agamben ama l'erudizione. Niente di male. 

Il guaio è che talvolta egli mette il naso fuori dal chiostro della mera speculazione, si spinge fino negli spazi di movimento circondato dalla deferenza dei bifolchi e, quando lo fa, eccolo partire da Rurick per non dire nulla sul passaggio del Prut. Anzi, peggio! Molto peggio, perché quando gli salta in mente di esprimersi su di un fatto concreto, non si differenzia poi molto da quello che potrebbe dire se non il primo, almeno il secondo o il terzo passante per strada: il Prut è un fiume, ad attraversarlo ci si bagna, sarebbe meglio evitarne i tratti più profondi e le correnti più infide, tra cosacchi e turchi non corre buon sangue (il riferimento pare sia ad un fatto avvenuto nel lontano 1826). È come se le sue sinapsi si paralizzassero.

Ancora me lo ricordo nel 2008, dopo l'arresto in Francia di un suo allievo accusato di aver compiuto un sabotaggio contro l'Alta Velocità. Poveraccio, gli sarà tornato in mente l'amico/rivale Toni Negri, le manette del 7 aprile, i «cattivi maestri»... Si era precipitato a scrivere un esilarante articolo in cui condivideva «l'inquietudine di questi giovani di fronte alle degradazioni della democrazia», rinnovando al suo allievo la propria stima «da un punto di vista intellettuale» (non si sa mai, meglio evitare fraintendimenti con qualche monsieur Calogero in fregola giustizialista) e rammentando che «in Italia i treni sono molto spesso in ritardo ma nessuno si è mai sognato di accusare di terrorismo la società nazionale delle ferrovie». Aveva trovato anche «il coraggio di dire con chiarezza che oggi, in molti paesi europei, si sono introdotte delle leggi e delle misure di polizia che in passato si sarebbero giudicate come barbare e antidemocratiche», come quella che consente il fermo per 4 giorni di «un gruppo di giovani forse imprudenti». Tutto qui il succo delle sue dotte meningi? Bisogna capirlo, il sabotaggio non ha una ontologia su cui ruminare all'infinito.

È bello sapere che questo suo coraggio civile non lo ha abbandonato giacché un paio di anni fa ha alzato la voce in difesa non di un giovane francese, ma di un anziano tedesco che aveva appena osato l'inosabile: dare le dimissioni da pontefice. Ringalluzzito il chierichetto della teologia che cova in lui, nei panni di chierico della cultura ha quindi agognato il ritorno di un Impero Latino guidato dalla Chiesa — il solo modo per fermare l'egemonia teutonica in Europa. Tutto ciò lo riporto solo come premessa, tanto per far capire il baratro in cui può scivolare l'erudizione non appena esce dalla biblioteca.

Ebbene, oggi Agamben — dopo essere riuscito ad intossicarci per anni con uno «stato di eccezione» buono solo a far rivalutare lo stato di diritto, una «singolarità qualunque» buona solo ad annullare ogni unicità individuale, dei «mezzi senza fini» buoni solo a giustificare l'opportunismo di chi è disposto ad usare qualsiasi mezzo — ha promosso un altro concetto che si sta già diffondendo e che conoscerà altrettanto se non maggiore successo: la potenza destituente. Beh, qui l'abbinamento di termini è proprio facile e scontato giacché la «potenza destituente» rimanda subito al «potere costituito» caro al suo collega di cordata Toni Negri. Solo che non si tratta affatto di una alternativa radicalmente diversa, come potrebbero pensare i suoi ammiratori più libertari (sempre lesti a ripetere le parole dell'italico quotidiano comunista, secondo cui Agamben «davvero dischiude una nuova dimensione del pensiero mentre restituisce — con buona pace della "potenza costituente", cioè delle istituzioni e del governo — tutta la serietà dell'anarchia»), semmai di una alternanza di transizioni. Potere costituito e potenza destituente non sono affatto in opposizione, ma vanno sapientemente miscelati.

Per far crescere un bravo figliolo, in una sana famiglia rispettosa delle tradizioni, ci vuole sia un padre autoritario che una madre affettuosa. Il padre urlante pretenderà il lavoro produttivo in grado di cambiare il mondo, la madre sorridente concederà l'inoperosità sovrana che fa maturare la persona. Va da sé che il figliolo amerà la madre ed odierà il padre, che in fondo però rispetterà e di cui prenderà prima o poi il posto. Papà Negri e mamma Agamben hanno cresciuto intere schiatte di sovversivi a forza di ceffoni e carezze, entrambi indispensabili per dare una educazione politica ai figlioli, ops, scusate, ai kompagni. 

Diffidare del potere costituente è facile, intuitivo, in fondo bastano quelle due sole paroline per vedere agitarsi i vecchi fantasmi del contropotere, del governo rivoluzionario, della dittatura del... precariato. Evocano la vecchia concezione leninarda autoritaria del movimento che si fa Stato. Il potere costituente, giovane e fresco, che scalza quello costituito vecchio e bolso e ne prende il posto. Nulla di molto appassionante, geometrie simmetriche, si annega subito nella bava dell'ambizione politica di aspiranti ministri. La potenza destituente, invece, suona assai meglio. È più sobria, distaccata, sensibile. Non sbatte in faccia l'orizzonte istituzionale, no di certo. Anzi, lo fustiga per poi rifilarlo poco dopo sotto forma di fazzoletto con cui asciugarsi le lacrime. È la carezza che segue e precede il ceffone. Non ci sono contraddizioni ed opposizioni, solo fasi diverse. 

Si illude chi pensa che qui la potenza, in quanto energia in movimento, sia irreconciliabile con il potere inteso come energia istituzionalizzata. Per molti infatti — fra cui lo stesso Agamben — questi due termini sono intercambiabili, esprimendo al massimo due momenti diversi di una medesima forza. In effetti sarebbe pure comprensibile assegnare al potere una connotazione più cristallizzata, compiuta. Senza confondere il potere con la sete di potere, perché lo scettro c'è chi ce l'ha e chi lo vorrebbe avere. Da questo punto di vista il potere è solo quello costituito, vittorioso, deliberante. Quello in via di elaborazione, in competizione, voglioso di prenderne il posto, gli assomiglia, certo, però è definibile solo come potenza.

Ma si tratta di una potenza, di una forza, costituente o destituente? Mira a costruire istituzioni o a disfarsene? Non c’è molta differenza, considerato che in filosofia politica una cosa è conseguenza dell'altra. In un certo senso, se la distruzione è anche gioia creativa, allo stesso modo la forza che provoca la destituzione è anche costitutiva.

Il nostro tenta di contrabbandare un equivoco simile a quello generato dal concetto di «stato di eccezione». Dire che la sovranità si fonda sull'abuso del potere, sulla sospensione del diritto, non è una radicale negazione del dominio, in realtà ne è la giustificazione. Questo perché sottolineare l'infamia dell'abuso non fa che decretare la bontà dell'uso. Il concetto di destituzione funziona allo stesso modo, non eccede affatto il contesto istituzionale, lo conferma e lo rafforza. 

Agamben ha evocato la potenzialità destituente nel corso di una sua conferenza tenuta ad Atene nel novembre del 2013, su invito rivoltogli anche dal partito di Syriza. Dopo aver pianto la morte della bella democrazia vittima del brutale Stato securitario, dei cui artigli si è accorto perfino stando dentro al suo chiostro, afferma che è giunto il momento di abbandonare il paradigma della rivoluzione vista come costituzione di un nuovo ordine istituzionale. Al suo posto invoca quel «potere destituente» che percepiva già presente in Benjamin, il quale auspicava l'abolizione dello Stato e la destituzione definitiva del diritto. Ora, è facile giocare sull’ambivalenza di certi termini. Destituito può indicare una mancanza, come ad esempio nell'espressione «destituito di fondamento». La mancanza qui evocata è quella della dimensione statale? Ma a che serve notare una mancanza se non a colmarla? Se consultiamo un dizionario ci accorgiamo che destituire significa rimuovere da un impegno, da un ufficio, da un grado — essendo la destituzione una sanzione disciplinare che colpisce chi si è macchiato di una grave mancanza. E chi può prendere una tale decisione, se non chi possiede l'autorità per farlo? Dopo di che, cosa può avvenire se non una sostituzione, ovvero l'assegnazione ad altri, più meritevoli, dello stesso impegno, ufficio, grado? È la stessa ambiguità presente nel concetto di abolizione, trattandosi di una «cessazione definitiva imposta d'autorità».

Sono buffe le acrobazie dialettiche di chi è scontento dell'autorità, ma non sa e non vuole farne a meno. Benjamin ad esempio, nel sognare la fine dello Stato, sosteneva che nulla è così anarchico come l'ordine borghese (?). Il suo esegeta italiano cita Pasolini, difensore di sbirri proletari, secondo cui «la vera anarchia è l'anarchia al potere». Infatti per Agamben l'anomia è quella dei campi di concentramento. Poi però si duole della difficoltà di «pensare oggi qualche cosa come una vera anarchia o una vera anomia» e conclude che la sfida è proprio quella di comprendere e deporre «l'anarchia e l'anomia del potere». A parte il fatto che dovrebbe decidersi se la «vera anarchia» è quella al potere pasoliniamente parlando, o quella soggiogata dallo Stato, ma poi, mi si perdoni il quesito: quale sarebbe la nuova strategia per giungere all'Ingovernabile? Quell'Impero Latino di cui Agamben delirava solo otto mesi prima di questa conferenza? 

Suvvia, va bene il rispetto per i “sapienti”, ma a tutto c'è un limite. Già è difficile prendere sul serio uno che arriva a sostenere: «non abbiamo mai capito se Moro sia stato assassinato dalle Brigate Rosse o da qualche banda corrotta dai servizi segreti». O che millanta un’amicizia con Guy Debord smentita da tempo dalla pubblicazione della corrispondenza del teorico situazionista. E lasciamo perdere chi lo accusa di sciorinare il proprio sapere per intimidire eventuali critici. Ma come si fa a non mettersi a ridere a crepapelle davanti al dotto sostenitore dell'abbandono di categorie giuridiche che riesce ad esprimersi solo attraverso categorie giuridiche, capace di sostenere senza imbarazzo che «senza la possibilità di tornare indietro, ai princìpi del sistema giudiziario, si vede la legge diventare uno strumento nelle mani dei governi»? Come non sghignazzare di fronte a questo celebre docente di istituzioni culturali che si scaglia contro lo Stato e le sue istituzioni, e che è talmente desideroso di una azione «non costitutiva di un nuovo ordine politico e giuridico» da augurarsi «che il governo di sinistra di Syriza possa essere la scintilla di una svolta progressista in Europa»?

Tranne che per i sinistri che pendono dalla sua labbra, è fin troppo evidente che, se l’intento fosse davvero quello di disinnescare i meccanismi del potere, questi andrebbero sabotati sia nel presente (potere costituito) sia nel divenire (potenza destituente-costituente), e che perciò non ci sono motivi per oliare l'illusione di un qualche buon governo, di gabinetto greco o di sacrestia romana. Chiacchiera delirante a parte, per comprendere quali siano le pratiche reali benedette dalla sua metafisica basta guardare l'operato dei suoi ammiratori più vitaminici come ad esempio il gruppo di giovani francesi «forse imprudenti» di cui sopra. Cosa fanno per dare slancio alla potenza destituente? Si fanno eleggere nelle istituzioni locali e si mettono in mostra cercando spazio nei mass-media. Esattamente quello che fanno qui in Italia gli aperti sostenitori del potere costituente. E sarebbe questa la nuova forma-di-vita del divenire rivoluzionario?

Ecco, davanti alla cialtroneria di cotanta erudizione e prassi è impossibile trattenersi da un ultimo abbinamento mentale, e renderle il medesimo omaggio rivolto a suo tempo sul grande schermo all’onorevole di turno: ma mi faccia il piacere!

www.finimondo.org

Giorgio Agamben, con devozione

Giorgio Agamben è professore di estetica presso la Facoltà di Design e Arti dell'Istituto Universitario di Architettura di Venezia.
Dal 1978 al 1986 ha coordinato per la casa editrice Einaudi l'edizione italiana delle Opere di Walter Benjamin.
Ha pubblicato, fra l'altro, Stanze (Einaudi 1977); Infanzia e storia (Einaudi 1978 e 2001); Il linguaggio e la morte (Einaudi 1982); Idea della prosa (Feltrinelli 1985); La comunità che viene (Einaudi 1990; Bollati Boringhieri 2001), Homo sacer (Einaudi 1995), Quel che resta di Auschwitz. L'archivio e il testimone (Bollati Boringhieri 1998); Stato d'eccezione (Bollati Boringhieri 2003); La potenza del pensiero (Neri Pozza 2005), Il regno e la gloria. Per una genesi teologica dell'economia e del governo (Neri Pozza 2007), Il linguaggio e la morte (Einaudi 2008).
(Dal sito Einaudi)

Nessun Pensi

Un migliaio di anni fa. Nel 1006 Fulberto venne nominato vescovo di Chartres — sua città natale. Può essere considerato il fondatore di quella Scuola cattedrale di Chartres destinata a diventare uno dei più grandi istituti culturali dell'epoca, dove non veniva insegnata solo la teleologia, ma anche la filosofia, la geometria, la medicina. Per due secoli Chartres fu il centro della vita culturale della Francia, primato che perse all'inizio del XIII secolo con la nascita dell'Università di Parigi. Ma alle idee, quando cominciano a circolare, non è facile mettere la museruola. Spesso gli inchini davanti agli altari e ai troni non bastano. Non sorprende quindi che Chartres abbia dato i natali anche al filosofo e teologo Aumary de Bène, insegnante di logica a Parigi, assai più noto come quell'Amalrico che fu accusato di eresia nel 1204 ed i cui seguaci (gli «amauriani» o «amauriciani») vennero mandati al rogo dalla Chiesa per via del loro panteismo.
Mille anni dopo la cittadina di Chartres rischia di fare nuovamente scuola. All'inizio di agosto un uomo di 31 anni è stato condannato a due anni di prigione senza condizionale perché reo di una novella eresia: la lettura di siti internet accusati di «apologia del terrorismo». È una delle nuove leggi presenti nella riforma penale voluta dal ministro della giustizia Urvoas, e varata all'inizio dell'anno dal parlamento francese: viene punita con due anni di detenzione (e una multa di 30.000 euro) «la lettura di siti che fanno l'apologia del terrorismo, a meno che l'accusato non riesca a dimostrare la propria buona fede». Ma poiché la lettura incriminata era continua, assidua, non attribuibile ad un errore, il giudice ha ritenuto bene di correggere e superare il pubblico ministero il quale aveva richiesto per l'imputato la condanna a un solo anno di reclusione.
Chissà se 730 giorni passati in gattabuia sapranno far tornare a questo «radicalizzato» la buona fede e la voglia di leggere solo e soltanto Le Figaro, Le Monde, l'Humanité, L'Equipe, o «a mali estremi» Libération e Le Monde Diplomatique. Ne dubitiamo. Anzi, siamo tentati a dare ragione agli amauriciani i quali sostenevano che «nell’inferno non v’è altra pena che il verme della coscienza, che ogni peccatore porta nel cuore». E nel caso in cui i magistrati di Chartres non se ne siano accorti, il solo inferno che esista davvero è quello che si trova qui, su questa terra.
Ignoriamo quali siano i siti messi all'indice dagli eredi di Matthieu Ory — ultimo Grande Inquisitore di Francia — e non sappiamo cosa si agiti nella testa dei loro lettori. Ma non è difficile capire quale baratro si stia spalancando davanti all'umanità intera quando la mera lettura di uno scritto può essere ritenuta punibile con due anni di prigione. 


«Essere governato significa essere guardato a vista, ispezionato, spiato, diretto, legiferato, regolamentato, recintato, indottrinato, catechizzato, controllato, stimato, valutato, censurato, comandato, da parte di esseri che non hanno né il titolo, né la scienza, né la virtù. Essere governato vuol dire essere, a ogni azione, a ogni transazione, a ogni movimento, annotato, registrato, censito, tariffato, timbrato, squadrato, postillato, ammonito, quotato, collettato, patentato, licenziato, autorizzato, impedito, riformato, raddrizzato, corretto. Vuol dire essere tassato, addestrato, taglieggiato, sfruttato, monopolizzato, concusso, spremuto, mistificato, derubato e, alla minima resistenza, alla prima parola di lamento, represso, emendato, vilipeso, vessato, braccato, tartassato, accoppato, disarmato, ammanettato, imprigionato, fucilato, mitragliato, giudicato, condannato, deportato, sacrificato, venduto, tradito, e per giunta schernito, dileggiato, ingiuriato, disonorato, tutto con il pretesto della pubblica utilità e in nome dell'interesse generale».
 
Da Finimondo.org

“Il mondo si comincia a cambiare chiamando le cose con il loro nome” Rosa Luxemburg