“Storia di un’upupa e dell’uomo che le insegnò a upupare”, di Iginio Montile
di Ennio Bissolati[Ennio Bissolati è un bibliofilo. Per vibrisse recensisce libri introvabili, dei quali sostiene di essere l’unico lettore. gm]
Presento anzitutto le mie scuse alle gentili lettrici e ai cortesi lettori di vibrisse: la bibliofilia, come ben sa lo Gnirro (per quanto, prudentemente, si astenga dallo scriverne), non è professione ma passione; e talvolta dalle passioni la professione, per motivi professionali ovvero economici e alimentari, indebitamente – ovvero per evitar di far debiti – distoglie. Comunque: èccomi qua, di bel nuovo tornato dal Brasile, ove mi recai in qualità di consulente di una società di formazione di formatori di operatori addetti alla messa in opera di zanzariere avvolgibili – potete facilmente immaginare, in questi tempi olimpiàdici, l’incremento della domanda e la frenesia dell’offerta. Dunque rientro, e mi ritrovo tra la posta – sollecitamente depositata dal postino presso il salone di estetica Bulli & Pupe, sotto casa – questo tomino (in senso voluminoso, non caseario) intitolato Storia di un’upupa e dell’uomo che le insegnò a upupare, dovuto alla spregevole penna di Iginio Montile. Spregevole, dico: e so il fatto mio.
Se l’imitazione, si sa, è la madre di tutte le arti, giacché solo l’imitazione dei grandi permette ai piccoli d’ingrandirsi e aggrandirsi, e alla fin fine diventare grandi a loro volta; se l’imitazione è tanto imitazione, come dicevano gli antichi, della Natura – quanto imitazione, come dicevano gli intermedi (mentre i moderni, come noto, rifiutandosi d’imitare alcunché, ricaddero in quell’imitazione di sé stessi che fu improvvidamente chiamata Romanticismo) delle opere belle prodotte dagli antichi; be’, mi sia concesso a questo consesso dirlo, esiste al mondo una variante degradata, se non perversa, o pervertita, dell’imitazione, che altro non è che la copiatura sputata e spudorata. Nella bibliografia – ovviamente smsiurata – dell’Iginio Montile troviamo infatti (e sia chiaro che trascelgo): Storia di un gallo e della gallina che gli insegnò a galleggiare; Storia di una farfalla e del logopedista che le disimparò a farfugliare; Storia di una lontra e della nutria che le fece visitare Londra; Storia di un pappagallo e del papa che lo distolse dal gallicanesimo (imprudentissimamente pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana, che dopo il recente cambio di papa se ne pentì amaramente); Storia di una giraffa e del personal coach che la rese affabile; Storia di una tarantola e del tarantino che le insegnò la tarantella; Storia di un geco e del greco che lo fece secco; Storia di un anaconda e della bionda che lo comprò alla Standa; Storia di un coleottero e del balenottero che gli fece fare un giro in elicottero; e, dulcis in fundo, ovvero last but not least, Storia di una lucertola e di Cenerentola che l’acchiappò sull’erta. Una scorpacciata di scopiazzature, una colazione a ripetere, un’indigestione di taroccamenti. Tutto a scapito di quel prover uomo che s’inventò la favola della gabbianella, che tutti conoscono, e del quale è superfluo quindi fare il nome: favola gradevole, pedagogicamente corretta, e baciata da una fortuna tanto incommensurabile quanto immotivata (in quanto nessuna fortuna incommensurabile, a ben vedere, è seriamente motivata).
Che dire dunque di quest’ultima, ma temo non ultima, fatica del nostro? Tanti complimenti al grafico, diremo innanzitutto, autore di una copertina tra le più inguardabili degli ultimi vent’anni; tanti complimenti all’editore, per la trovata delle non centomila, non duecentomila, non centocinquantamila, ma 147.322 “copie vendute”: come se bastasse buttare lì un numero, tanto esagerato quanto a caso, per sfuggire al sospetto di reclamistica iperbole; e tanti complimenti all’autore che finalmente, dopo tanto furfanteggiare copiando e scopiazzando a destra e a manca, a forza di dài e dài, ha prodotto un’opera nella quale – caso unico nel Montile – il delirio supera la tracotanza, la follia supera il mero calcolo economico, l’illusionismo immaginifico supera la bieca ripetizione. Il nostro sospetto – e i sospetti dei bibliofili, si sa, son particolarmente sospettabili – è che il Montile sia giunto al capolavoro per sfinimento: esaurita la scorta delle scopiazzature possibili, in questa Storia di un’upupa e dell’uomo che le insegnò a uppare egli si è inoltrato in quel territorio nel quale regnano gli Ioneschi, ed ivi ha riportato uno strabiliante quanto impreveduto successo (artistico, s’intende; ché sul numero di copie vendute ecc. ecc., col fischio, ecc. ecc.).
E dunque. Se vi piace l’assurdo, lettrici care, spettabili lettori, questo Iginio Montile fa per voi. Tutto il resto no. Come della sterminata opera di Emilio Salgari – tanto per citare qualcuno che, s’intende artisticamente, non c’entra per nulla – solo due, forse tre romanzi si salvano; restando inspiegabile come un tanto insipido narratore sia riuscito una, due, tre volte in vita – e solo quelle – ad elevarsi alle vere vette dell’arte; così il Montile. Genio una volta, e poi – temiamo – più. Cogliete dunque questo estremo, unico fiore; e meditate, gente, meditate sull’infinita vanità delle aspirazioni umane.
Le recensioni del bibliofilo.
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