mercoledì 24 agosto 2016

Tra mito e utopia...

 
«L'uomo può costruire fuori di sé solo quello che ha innanzitutto concepito dentro di sé», ammoniva uno studioso. Per costruire un mondo senza autorità, bisogna prima concepirlo. Non programmarlo, schematizzarlo o misurarlo. No, solo concepirlo, nel suo duplice significato: pensarlo è fecondarlo. Ma per concepire un mondo che non sia un mero riflesso di quello circostante, occorre che la conoscenza corra sfrenata a saccheggiare gli arsenali della memoria e dell'immaginazione. La scoperta delle trasgressioni del passato dà spunti e suggerimenti indispensabili per riuscire ad immaginare e far immaginare una vita priva di rapporti di potere nel futuro. E viceversa. Allora, le esperienze del passato e le possibilità del futuro prendono appuntamento sul campo di battaglia del presente. Ed è qui che si incontrano il mito e l'utopia.
Per quanto entrambi si muovano sul filo dell'immaginazione, mito e utopia si collocano su versanti diametralmente opposti. Il mito è uno sguardo rivolto all’indietro, allude a una felicità perduta, è una narrazione di fatti mai avvenuti la cui funzione è quella di inventare un passato leggendario al fine di giustificare gli elementi fondamentali di un gruppo (spesso altrimenti insostenibili). L'utopia è uno sguardo rivolto in avanti, intravede una felicità potenziale, è un luogo che non esiste la cui funzione è quella di evocare un futuro appassionante al fine di affermare teorie e pratiche conseguenti (spesso altrimenti insostenibili). Per quanto possa apparire verosimile, il mito ha la consapevolezza di sguazzare nella finzione. Invece, per quanto possa apparire inverosimile, l'utopia ha la determinazione di bagnarsi nella verità. Sia il mito che l'utopia possono essere apprezzati o criticati. Il primo per il suo fascino o per il suo artificio, la seconda per la sua innovazione o per la sua illusione.
Sebbene entrambi nascano come negazione (della mediocrità) del presente, sia il mito che l'utopia non se ne estraniano mai del tutto. Il mito offre racconti del passato che permettono di comprendere il mondo qui ed ora; è «la perennemente rinnovata rivelazione di una realtà che permea l'individuo fino al punto da costringerlo a conformarvi il proprio comportamento» (Leenhardt). L'utopia descrive un mondo futuro che sollecita l'azione qui ed ora; è «quel tipo di orientamento che trascende la realtà e insieme spezza i legami dell'ordine esistente» (Mannheim).
Laddove non arriva la storia, nasce il mito. Ciò è ovvio, non ha senso criticarlo. Ma la bellezza e la forza dei miti non deve far cadere nella tentazione di crearli ed usarli a scopi politici. Perché non è certo un caso se il mito viene usato da forze reazionarie, mentre l'utopia ha fatto breccia in quelle rivoluzionarie. Stimolatori dell'immaginazione dall'effetto agente, il loro modo di intervenire sulla storia è di segno del tutto diverso. La caratteristica del mito è quella di fondarsi solo sul sentimento, in contrasto con la ragione, e in tal senso è un potente mezzo di controllo sociale. Perché viene trasmesso per tradizione, opera per suggestione, è al di là di ogni critica e discussione. Un mito lo si subisce, proprio come la religione. Ecco perché corrisponde così bene alle esigenze totalitarie.
È quanto non aveva capito Sorel, ad esempio, il quale sosteneva il mito contro l'utopia a fini rivoluzionari. Ai suoi occhi la potenza indiscussa del mito costituiva una scorciatoia perfetta per accelerare la trasformazione sociale, senza farle perdere tempo con teorie tutte da dimostrare. In quanto progetto, l'utopia può essere ponderata, criticata, modificata e confutata, mentre il mito non si può rifiutare essendo l'oscura volontà delle masse («è l'insieme del mito che conta… non è quindi di alcuna utilità ragionare»). Egli definiva il mito politico «un'organizzazione di immagini capaci di evocare istintivamente tutti i sentimenti che corrispondono alle diverse manifestazioni della guerra intrapresa». I miti quindi «non sono descrizioni di cose vere», ma esprimono «la volontà d'un gruppo che si prepara alla lotta». Non hanno nulla a che fare con la verità dei pensieri, solo con la forza degli istinti.
Queste sue parole, redatte nel 1906, non aiutarono a provocare uno sciopero generale, scintilla della rivoluzione sociale. In compenso, verranno assai bene messe in pratica dai regimi totalitari. Questo perché il sentimento, quando viene staccato da ogni consapevolezza e lasciato in pasto ai soli istinti, diventa facilmente manipolabile. Come osservava Jung: «Con lo spirito del tempo non è lecito scherzare: esso è una religione, o meglio ancora una confessione, un credo, a carattere completamente irrazionale, ma con l’ingrata proprietà di volersi affermare quale criterio assoluto di verità, e pretende di avere per sé tutta la razionalità. Lo spirito del tempo si sottrae alle categorie della ragione umana. Esso è un’inclinazione, una tendenza di origine e natura sentimentali, che agisce su basi inconsce esercitando una suggestione preponderante sugli spiriti più deboli e trascinandoli con sé».
Quando Mussolini si vantava: «noi abbiamo creato un nostro mito. Il mito è una fede, è una passione. Non è necessario che sia una realtà. È una realtà nel fatto che è un pungolo, che è una speranza, che è fede, che è coraggio»; quando Goebbels precisava: «noi non parliamo per dire qualcosa, ma per ottenere un certo effetto»; quando i fascisti esaltavano la politica come «audacia, come tentativo, come impresa, come insoddisfazione della realtà, come avventura, come celebrazione del rito dell'azione»; si stavano tutti rivolgendo a quanti erano disponibili a scattare in preda alle narrazioni, perché refrattari ad agire sulla spinta delle riflessioni. Alla massa, al popolo, alla collettività: ad una manovalanza di abbrutiti.
Come in molti hanno fatto notare, è proprio quando la cosiddetta crisi sociale è forte (e i nemici sono alle porte) che il mito politico si fa preponderante rispetto alla razionalità. E quale ragione, quale coscienza possono sussistere oggi, in un'epoca di perdita del linguaggio e di erosione del significato, di tracolli economici e di esodi di massa? Senza considerare l'indigenza materiale e intellettuale, il frenetico sviluppo tecnologico, con la sua velocità e pervasività, impedisce all'individuo di interiorizzare ed elaborare una propria visione del mondo, non permettendogli una scelta critica autonoma e facendolo soccombere all’ipertrofia di una realtà circostante diventata troppa.
Ciò spiega perché oggi la narrazione mitopoietica abbia preso il posto del vecchio determinismo. Entrambi sollevano l'individuo dal gravoso compito di conoscere e di riflettere, lasciandolo in balìa del sentire l'imperativo di un destino sovrastante. Ma la mitopoiesi moderna ha fatto un salto terrificante rispetto a quella antica. Non si accontenta di inventare leggende sul passato remoto, laddove è impossibile stabilire la verità storica. No, trasforma in mito anche i fatti più recenti, facendo quindi della finzione una virtù e della verità un vizio. Dai palcoscenici del potere ci sono venuti a raccontare, per esempio, che Sacco e Vanzetti non sono stati mandati sulla sedia elettrica per via delle loro idee anarchiche, bensì per le loro origini italiane. In questa maniera è l'orgoglio nazionale a venire stimolato, il patriottismo, non certo l'ostilità verso lo Stato. Allo stesso modo dalle latrine del movimento ci sono venuti a raccontare, per esempio, che negli anni 70 non c'erano organizzazioni politico-militari composte da militanti marxisti-leninisti, bensì bande di allegri avventurieri. In questa maniera nei confronti di chi ha ambizioni autoritarie viene sollecitata l'ammirazione, non certo il disprezzo o la distanza.
Ma la narrazione mitologica in cosa si differenzia dal revisionismo storiografico? Quest'ultimo non è forse una «narrazione storica capace di divenire momento di suggestione o di coagulo, di spinta o di risultato, per una lettura e visione del passato facilmente spendibile e utilizzabile sul terreno politico o comunque nell'arena pubblica»? Se si giustifica il ricorso all’adulterazione, allora perché scandalizzarsi di fronte alla narrazione fascista sulle foibe? Evidentemente non perché essa sia sostanzialmente falsa, ma solo perché l'uso strategico della menzogna viene qui messo al servizio dell'estrema destra anziché dell'estrema sinistra.
Certo, è impossibile negare che un qualche aspetto mitologico sia pressoché inevitabile in ogni rievocazione del passato, per quanto rigorosa ed accurata sia. La memoria, così come la ricerca storica, sono pur sempre di parte, esercitate da individui in carne e ossa con le proprie passioni e convinzioni. Perciò sono selettive e tendono a correggere i fatti, a dilungarsi sui meriti che più stanno a cuore e a liquidare i demeriti che più causano imbarazzo, ingigantendo i primi e sminuendo i secondi. Ma se lievi esagerazioni, in eccesso come in difetto, possono essere comprensibili e giustificabili, non per questo è da apprezzare e teorizzare una loro proliferazione.
Leggere i molti testi autobiografici di chi ha combattuto sulle barricate può essere esaltante, nessuno lo nega. Ma assai più istruttivi sono quei pochi libri che hanno cercato di esaminare gli errori commessi durante le rivoluzioni. Le emozionanti memorie di comunardi hanno conosciuto molte più traduzioni e ristampe del «manuale pratico degli errori» scritto da Jules Andrieu (delegato ai Servizi pubblici della Comune, nonché amico di Varlin e di Verlaine) come contributo alla comprensione di quanto accaduto. Il mito della Comune non ne perpetua solo l'entusiasmo, ma anche i limiti. Come premessa ad una futura riscossa ci vuole ben altro; non la suggestione, ma la riflessione. Ovvero una Comune senza mito.
Allo stesso modo la lettura di un libro come quello di Vernon Richards sugli insegnamenti della rivoluzione spagnola è in un certo senso più necessaria di quella delle varie biografie di anarchici pistoleri e dinamitardi. Nel 1956, ventesimo anniversario della rivoluzione spagnola ed anno dell'insurrezione ungherese, Louis Mercier raccomandava di evitare «le narrazioni che trasfigurano il passato e forniscono un alibi alla nostra fatica odierna. Quando rimangono solo santini, il tradimento di chi è sopravvissuto è acquisito». Nel suo rifiuto della leggenda egli affermava che «il primo compito necessario al nostro equilibrio è quello di riesaminare la guerra civile sui documenti e sui fatti, e non di coltivarne la nostalgia con le nostre esaltazioni. Compito che non è mai stato condotto con consapevolezza e coraggio, perché avrebbe indotto a mettere a nudo non solo le debolezze e i tradimenti degli altri, ma anche le nostre illusioni ed incapacità, di noi libertari». (...)

Una sfida alla miseria del presente, non una sua affabulatoria edulcorazione. Un pensiero per sollevare i deboli e minacciare i potenti, non una suggestione per trascinare i primi e licenziare i secondi. L'utopia è l'esatto contrario del mito. Formula un progetto, è l'espressione di una volontà cosciente e ponderata, tende a una prova dei fatti, si sottopone alla critica e al dibattito. Non mistifica la verità, la cerca. L'ebbrezza della sua seduzione accompagna la fondatezza della sua ragione, non la sostituisce.
Una volta creata nella propria mente, l'utopia inizia a vagliare i pensieri e le azioni. Diventa etica. Non si accontenta della rilassatezza della verosimiglianza, esige la tensione della coscienza. Perché l'utopia non cade dal cielo o prorompe dalla terra, già bella e pronta. E non è il destino inevitabile che ci aspetta. La si costruisce. Per realizzarla nella storia bisogna incarnarla nella propria vita. Non si arriva all'utopia attraverso il realismo, non si arriva alla libertà attraverso l'autorità. Con un mito costruito con parole e diffuso attraverso la stampa e la radio, un pugno di ingegneri di anime ha fatto fare in passato il passo dell'oca alle popolazioni di mezza Europa. Oggi, con un mito costituito soprattutto da immagini e diffuso attraverso la stampa, la radio, la televisione ed internet, battaglioni di ingegneri di anime possono far fare lo struscio del verme all'intera umanità. Contro il mito, l'utopia necessita che tutti siano consapevoli. Consapevoli dei fini da raggiungere quanto dei mezzi da impiegare — dai flauti ideali ai martelli materiali. Tutto ciò, oltre a non essere realistico, non è di certo attuale. Ma l'attualità è qualcosa che solo il pubblico segue. Fuori dal pubblico, la si crea.

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