«L'uomo può costruire fuori di sé solo quello che ha innanzitutto
concepito dentro di sé», ammoniva uno studioso. Per costruire un mondo
senza autorità, bisogna prima concepirlo. Non programmarlo,
schematizzarlo o misurarlo. No, solo concepirlo, nel suo duplice
significato: pensarlo è fecondarlo. Ma per concepire un mondo che non
sia un mero riflesso di quello circostante, occorre che la conoscenza
corra sfrenata a saccheggiare gli arsenali della memoria e
dell'immaginazione. La scoperta delle trasgressioni del passato dà
spunti e suggerimenti indispensabili per riuscire ad immaginare e far
immaginare una vita priva di rapporti di potere nel futuro. E viceversa.
Allora, le esperienze del passato e le possibilità del futuro prendono
appuntamento sul campo di battaglia del presente. Ed è qui che si
incontrano il mito e l'utopia.
Per quanto entrambi si muovano sul filo dell'immaginazione, mito e
utopia si collocano su versanti diametralmente opposti. Il mito è uno
sguardo rivolto all’indietro, allude a una felicità perduta, è una
narrazione di fatti mai avvenuti la cui funzione è quella di inventare
un passato leggendario al fine di giustificare gli elementi fondamentali
di un gruppo (spesso altrimenti insostenibili). L'utopia è uno sguardo
rivolto in avanti, intravede una felicità potenziale, è un luogo che non
esiste la cui funzione è quella di evocare un futuro appassionante al
fine di affermare teorie e pratiche conseguenti (spesso altrimenti
insostenibili). Per quanto possa apparire verosimile, il mito ha la
consapevolezza di sguazzare nella finzione. Invece, per quanto possa
apparire inverosimile, l'utopia ha la determinazione di bagnarsi nella
verità. Sia il mito che l'utopia possono essere apprezzati o criticati.
Il primo per il suo fascino o per il suo artificio, la seconda per la
sua innovazione o per la sua illusione.
Sebbene entrambi nascano come negazione (della mediocrità) del
presente, sia il mito che l'utopia non se ne estraniano mai del tutto.
Il mito offre racconti del passato che permettono di comprendere il
mondo qui ed ora; è «la perennemente rinnovata rivelazione di una realtà
che permea l'individuo fino al punto da costringerlo a conformarvi il
proprio comportamento» (Leenhardt). L'utopia descrive un mondo futuro
che sollecita l'azione qui ed ora; è «quel tipo di orientamento che
trascende la realtà e insieme spezza i legami dell'ordine esistente»
(Mannheim).
Laddove non arriva la storia, nasce il mito. Ciò è ovvio, non ha
senso criticarlo. Ma la bellezza e la forza dei miti non deve far cadere
nella tentazione di crearli ed usarli a scopi politici. Perché non è
certo un caso se il mito viene usato da forze reazionarie, mentre
l'utopia ha fatto breccia in quelle rivoluzionarie. Stimolatori
dell'immaginazione dall'effetto agente, il loro modo di intervenire
sulla storia è di segno del tutto diverso. La caratteristica del mito è
quella di fondarsi solo sul sentimento, in contrasto con la ragione, e
in tal senso è un potente mezzo di controllo sociale. Perché viene
trasmesso per tradizione, opera per suggestione, è al di là di ogni critica e discussione. Un mito lo si subisce, proprio come la religione. Ecco perché corrisponde così bene alle esigenze totalitarie.
È quanto non aveva capito Sorel, ad esempio, il quale sosteneva il mito contro l'utopia a fini rivoluzionari. Ai suoi occhi la potenza indiscussa
del mito costituiva una scorciatoia perfetta per accelerare la
trasformazione sociale, senza farle perdere tempo con teorie tutte da
dimostrare. In quanto progetto, l'utopia può essere ponderata,
criticata, modificata e confutata, mentre il mito non si può rifiutare
essendo l'oscura volontà delle masse («è l'insieme del mito che conta…
non è quindi di alcuna utilità ragionare»). Egli definiva il mito
politico «un'organizzazione di immagini capaci di evocare istintivamente
tutti i sentimenti che corrispondono alle diverse manifestazioni della
guerra intrapresa». I miti quindi «non sono descrizioni di cose vere»,
ma esprimono «la volontà d'un gruppo che si prepara alla lotta». Non
hanno nulla a che fare con la verità dei pensieri, solo con la forza
degli istinti.
Queste sue parole, redatte nel 1906, non aiutarono a provocare uno
sciopero generale, scintilla della rivoluzione sociale. In compenso,
verranno assai bene messe in pratica dai regimi totalitari. Questo
perché il sentimento, quando viene staccato da ogni consapevolezza e
lasciato in pasto ai soli istinti, diventa facilmente manipolabile.
Come osservava Jung: «Con lo spirito del tempo non è lecito scherzare:
esso è una religione, o meglio ancora una confessione, un credo, a
carattere completamente irrazionale, ma con l’ingrata proprietà di
volersi affermare quale criterio assoluto di verità, e pretende di avere
per sé tutta la razionalità. Lo spirito del tempo si sottrae alle
categorie della ragione umana. Esso è un’inclinazione, una tendenza di
origine e natura sentimentali, che agisce su basi inconsce esercitando
una suggestione preponderante sugli spiriti più deboli e trascinandoli
con sé».
Quando Mussolini si vantava: «noi abbiamo creato un nostro mito. Il
mito è una fede, è una passione. Non è necessario che sia una realtà. È
una realtà nel fatto che è un pungolo, che è una speranza, che è fede,
che è coraggio»; quando Goebbels precisava: «noi non parliamo per dire
qualcosa, ma per ottenere un certo effetto»; quando i fascisti
esaltavano la politica come «audacia, come tentativo, come impresa, come
insoddisfazione della realtà, come avventura, come celebrazione del
rito dell'azione»; si stavano tutti rivolgendo a quanti erano
disponibili a scattare in preda alle narrazioni, perché refrattari ad
agire sulla spinta delle riflessioni. Alla massa, al popolo, alla
collettività: ad una manovalanza di abbrutiti.
Come in molti hanno fatto notare, è proprio quando la cosiddetta
crisi sociale è forte (e i nemici sono alle porte) che il mito politico
si fa preponderante rispetto alla razionalità. E quale ragione, quale
coscienza possono sussistere oggi, in un'epoca di perdita del linguaggio
e di erosione del significato, di tracolli economici e di esodi di
massa? Senza considerare l'indigenza materiale e intellettuale, il
frenetico sviluppo tecnologico, con la sua velocità e pervasività,
impedisce all'individuo di interiorizzare ed elaborare una propria
visione del mondo, non permettendogli una scelta critica autonoma e
facendolo soccombere all’ipertrofia di una realtà circostante diventata
troppa.
Ciò spiega perché oggi la narrazione mitopoietica abbia preso il
posto del vecchio determinismo. Entrambi sollevano l'individuo dal
gravoso compito di conoscere e di riflettere, lasciandolo in balìa del
sentire l'imperativo di un destino sovrastante. Ma la mitopoiesi moderna
ha fatto un salto terrificante rispetto a quella antica. Non si
accontenta di inventare leggende sul passato remoto, laddove è
impossibile stabilire la verità storica. No, trasforma in mito anche i
fatti più recenti, facendo quindi della finzione una virtù e della
verità un vizio. Dai palcoscenici del potere ci sono venuti a
raccontare, per esempio, che Sacco e Vanzetti non sono stati mandati
sulla sedia elettrica per via delle loro idee anarchiche, bensì per le
loro origini italiane. In questa maniera è l'orgoglio nazionale a venire
stimolato, il patriottismo, non certo l'ostilità verso lo Stato. Allo
stesso modo dalle latrine del movimento ci sono venuti a raccontare, per
esempio, che negli anni 70 non c'erano organizzazioni politico-militari
composte da militanti marxisti-leninisti, bensì bande di allegri
avventurieri. In questa maniera nei confronti di chi ha ambizioni
autoritarie viene sollecitata l'ammirazione, non certo il disprezzo o la
distanza.
Ma la narrazione mitologica in cosa si differenzia dal revisionismo
storiografico? Quest'ultimo non è forse una «narrazione storica capace
di divenire momento di suggestione o di coagulo, di spinta o di
risultato, per una lettura e visione del passato facilmente spendibile e
utilizzabile sul terreno politico o comunque nell'arena pubblica»? Se
si giustifica il ricorso all’adulterazione, allora perché scandalizzarsi
di fronte alla narrazione fascista sulle foibe? Evidentemente non
perché essa sia sostanzialmente falsa, ma solo perché l'uso strategico della menzogna viene qui messo al servizio dell'estrema destra anziché dell'estrema sinistra.
Certo, è impossibile negare che un qualche aspetto mitologico sia
pressoché inevitabile in ogni rievocazione del passato, per quanto
rigorosa ed accurata sia. La memoria, così come la ricerca storica, sono
pur sempre di parte, esercitate da individui in carne e ossa con le
proprie passioni e convinzioni. Perciò sono selettive e tendono a
correggere i fatti, a dilungarsi sui meriti che più stanno a cuore e a
liquidare i demeriti che più causano imbarazzo, ingigantendo i primi e
sminuendo i secondi. Ma se lievi esagerazioni, in eccesso come in
difetto, possono essere comprensibili e giustificabili, non per questo è
da apprezzare e teorizzare una loro proliferazione.
Leggere i molti testi autobiografici di chi ha combattuto sulle
barricate può essere esaltante, nessuno lo nega. Ma assai più istruttivi
sono quei pochi libri che hanno cercato di esaminare gli errori
commessi durante le rivoluzioni. Le emozionanti memorie di comunardi
hanno conosciuto molte più traduzioni e ristampe del «manuale pratico
degli errori» scritto da Jules Andrieu (delegato ai Servizi pubblici
della Comune, nonché amico di Varlin e di Verlaine) come contributo alla
comprensione di quanto accaduto. Il mito della Comune non ne perpetua
solo l'entusiasmo, ma anche i limiti. Come premessa ad una futura
riscossa ci vuole ben altro; non la suggestione, ma la riflessione.
Ovvero una Comune senza mito.
Allo stesso modo la lettura di un libro come quello di Vernon
Richards sugli insegnamenti della rivoluzione spagnola è in un certo
senso più necessaria di quella delle varie biografie di anarchici
pistoleri e dinamitardi. Nel 1956, ventesimo anniversario della
rivoluzione spagnola ed anno dell'insurrezione ungherese, Louis Mercier
raccomandava di evitare «le narrazioni che trasfigurano il passato e
forniscono un alibi alla nostra fatica odierna. Quando rimangono solo
santini, il tradimento di chi è sopravvissuto è acquisito». Nel suo
rifiuto della leggenda egli affermava che «il primo compito necessario
al nostro equilibrio è quello di riesaminare la guerra civile sui
documenti e sui fatti, e non di coltivarne la nostalgia con le nostre
esaltazioni. Compito che non è mai stato condotto con consapevolezza e
coraggio, perché avrebbe indotto a mettere a nudo non solo le debolezze e
i tradimenti degli altri, ma anche le nostre illusioni ed incapacità,
di noi libertari». (...)
Una sfida alla miseria del presente, non una sua affabulatoria
edulcorazione. Un pensiero per sollevare i deboli e minacciare i
potenti, non una suggestione per trascinare i primi e licenziare i
secondi. L'utopia è l'esatto contrario del mito. Formula un progetto, è
l'espressione di una volontà cosciente e ponderata, tende a una prova
dei fatti, si sottopone alla critica e al dibattito. Non mistifica la
verità, la cerca. L'ebbrezza della sua seduzione accompagna la
fondatezza della sua ragione, non la sostituisce.
Una volta creata nella propria mente, l'utopia inizia a vagliare i
pensieri e le azioni. Diventa etica. Non si accontenta della
rilassatezza della verosimiglianza, esige la tensione della coscienza.
Perché l'utopia non cade dal cielo o prorompe dalla terra, già bella e
pronta. E non è il destino inevitabile che ci aspetta. La si costruisce.
Per realizzarla nella storia bisogna incarnarla nella propria vita. Non
si arriva all'utopia attraverso il realismo, non si arriva alla libertà
attraverso l'autorità. Con un mito costruito con parole e diffuso
attraverso la stampa e la radio, un pugno di ingegneri di anime ha fatto
fare in passato il passo dell'oca alle popolazioni di mezza Europa.
Oggi, con un mito costituito soprattutto da immagini e diffuso
attraverso la stampa, la radio, la televisione ed internet, battaglioni
di ingegneri di anime possono far fare lo struscio del verme all'intera
umanità. Contro il mito, l'utopia necessita che tutti siano consapevoli.
Consapevoli dei fini da raggiungere quanto dei mezzi da impiegare — dai
flauti ideali ai martelli materiali. Tutto ciò, oltre a non essere
realistico, non è di certo attuale. Ma l'attualità è qualcosa che solo
il pubblico segue. Fuori dal pubblico, la si crea.
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