Manifesto per la soppressione dei partiti politici
Simone Weil (con una prefazione di André Breton)
Castelvecchi Editore, Roma, 2012
Scritte nel 1943, l’anno della morte di Simone Weil, queste note
rimasero nel cassetto assieme a molti altri suoi scritti inediti per
essere pubblicate in Francia solo nel 1950. Ebbene, alla lettura di
queste sue inequivocabili parole sulla necessità di sopprimere tutti i
partiti politici — pensiero che in fondo si potrebbe considerare il suo
«testamento politico» — si rimane sorpresi, quasi sbalorditi. Il
significato della parola è talmente manipolabile da rendere pressochè
inutile ogni espressione? Come è possibile che molti rinnovatori della
politica si siano appropriati di questo testo, facendo della sua autrice
una pioniera del cittadinismo?
Non se lo meritava, proprio no.
Nemmeno quel cauto «sembra» con cui fa precedere alcune sue osservazioni
lo giustifica. La scrittrice francese è chiara nell'indicare ogni
partito come un «male», «totalitario in nuce e nelle aspirazioni», un
organismo costituito «in maniera tale da uccidere nelle anime il senso
della verità e della giustizia». Dedito alla «menzogna» ed impotente a
realizzare il cosiddetto «bene pubblico», ogni partito — insiste — è una
vera e propria scuola di «servilismo». La critica di Simone Weil è
talmente spietata da spingerla a dire che «la soppressione dei partiti
costituirebbe un bene quasi allo stato puro», ponendo fine a «una
lebbra» che ha «contaminato» ogni cosa.
Ora, il rimedio contro
questa lebbra non può essere certo un virus come la peste. Inutile
agitare una qualche nuova «passione collettiva» con cui ottenebrare le
persone, inutile sperare in partiti diversi o migliori. Nemmeno i
partiti clandestini, quelli messi fuori legge per la loro opposizione,
valgono granché. Anche loro, precisa l'autrice di questo testo, sono
assetati di potere proprio e di obbedienza altrui. Contro la menzogna
dei partiti politici c'è solo la ricerca individuale della verità, di
quella «luce interiore» che per la scrittrice francese era un tutt'uno
con Dio — ma che per altri è sinonimo di coscienza critica.
Come
possono parole così chiare essere messe al servizio di nuovi partiti?
Perché questa lebbra non ha devastato soltanto il mondo in cui viviamo,
ha colpito e minato irrimediabilmente anche l'immaginario dell'essere
umano, spuntando gli artigli alla critica radicale. Il testo usato dagli
editori italiani come introduzione, un articolo redatto nel 1950 dal
fondatore del surrealismo, ne è già un affliggente esempio. Anche Breton
si scaglia con virulenza contro i partiti, ricorda con Camus la
necessità di un'etica risolutamente ostile alla politica e saluta con
ammirazione le parole di Simone Weil. Ma poi, ecco l'imbarazzante
teorico del Meraviglioso concludere precisando di preferire una graduale
«messa al bando» dei partiti rispetto ad una loro «soppressione»
immediata; e «nell'attesa, possiamo quantomeno sperare che le prossime
consultazioni elettorali riportino in vigore un sistema di scrutinio che
non sfavorisca più sistematicamente il candidato che si ponga come
responsabile di fronte ai propri elettori, a vantaggio di chi non deve
fare i conti con altri che il proprio partito». Dall'intransigenza etica
(«Non si può servire Dio e Mammona. Qualora si abbia un criterio del
bene diverso dal bene, si perde la nozione del bene») si passa così al
possibilismo politico.
È questa assoluta incapacità di immaginare
tutt'altro rispetto all'Uno dello Stato e del bene pubblico, è questa
persuasione di dover «quantomeno» sporcarsi le mani con la politica, a
far sì che qualsiasi attacco ai partiti venga interpretato
automaticamente come fosse un attacco rivolto soltanto a quelli vecchi
già esistenti, e da cui sarebbero esenti i partiti nuovi o futuri (che,
in quanto tali, vanno ritenuti migliori e giusti). Ed è in virtù delle
capacità recuperatrici di questo luogo comune che le critiche di Simone
Weil, qui in Italia, hanno in passato influenzato l'esperienza di un
imprenditore progressista come Adriano Olivetti (eletto nel 1958 alla
Camera dei Deputati nella lista del Movimento Comunità), mentre oggi
sono fonte di ispirazione per rampanti comici-politici pentastellati o
per rottamati ex-ministri della Repubblica.
Ma se già settant'anni
fa — ai tempi dei grandi comizi, dei giornali di partito e della radio —
Simone Weil notava come la propaganda politica fosse una menzogna, oggi
che a plasmare le più intime convinzioni di chiunque sono la
televisione e internet, davvero si pensa che ci possa essere una
qualsivoglia alternativa alla soppressione dei partiti politici? La
storia ha dato un nome ben preciso al momento in cui questa soppressione
esce dalla speculazione per diventare possibile e concreta. Non si
chiama trionfo elettorale, né cambio di governo. Non si chiama
referendum, né legge popolare. Non si chiama conquista del Parlamento,
palazzo da «occupare» o da «aprire come una scatola di sardine».
Si chiama insurrezione. Come quella a cui Simone Weil partecipò in Spagna nell'estate del 1936.
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