AL 26 APRILE
Il trattato Rosh haShanà si apre con la descrizione e la discussione
rabbinica sui diversi capodanni. Una parte significativa è dedicata al
capodanno più importante, quello di fine estate-inizio autunno, che dà
il titolo al testo.
La tradizione fa risalire la creazione del primo uomo al 1° del mese di Tishrì, il primo dei due giorni di Rosh haShanà.
In esso si celebra la sovranità di Dio su tutto il creato e l’unità del
genere umano che discende dal primo uomo. Secondo i Maestri, l’uomo fu
creato il primo di Tishrì, mentre la creazione del mondo iniziò cinque giorni prima, il 25 del mese di Elul. Rosh haShanà
ricorda quindi la creazione dell’uomo, un uomo la cui dignità e la cui
immagine divina devono essere rispettate e difese, senza alcuna
distinzione di popolo, di religione, di cultura, contro ogni violenza.
È paradigmatico che il giorno di Rosh haShanà si legga il
brano della Torà sulla legatura (“sacrificio”) di Isacco. Insegnano i
rabbini che Dio mise alla prova (nissà) Abramo perché il comportamento
del patriarca potesse divenire una bandiera (nes) per tutti i popoli.
Abramo ha avuto la forza di vincere la tentazione di adeguarsi ai
costumi degli altri popoli: il patriarca – riconosciuto come tale anche
da cristiani e musulmani – non ha ascoltato solo la voce che gli
imponeva di sacrificare il suo unico figlio sull’altare, ma soprattutto
quella che gli ordinava di non macchiarsi le mani con il suo sangue.
Infatti lo shofàr (corno d’ariete) che si suona a Rosh haShanà ricorda l’animale che fu sacrificato in sostituzione di Isacco.
Uno spazio significativo del trattato Rosh haShanà si occupa proprio del suono dello shofàr. La ricorrenza di Rosh haShanà è strettamente legata al suono dello shofàr e alla sua capacità di suscitare il ricordo. In questo precetto c’è una dimensione verticale uomo-Dio. L’uomo suonando lo shofàr chiama in causa il Creatore che a sua volta si ricorda di chi lo invoca. Dio viene descritto nel giorno di Rosh haShanà come “colui che ricorda tutte le cose dimenticate”. Lo shofàr deve
suscitare nell’animo umano il ricordo della propria condizione di
creatura. L’attenzione divina è chiamata come un figlio che cerca il
padre, con un suono che non presenta parole, ma ricorda il pianto. La
tradizione indica che lo shofàr, aiutando a penetrare nella
parte più intima dell’anima, serve a “scuotere”, come dice il profeta
Amos (3, 6), innestando un processo di teshuvà (pentimento-ritorno).
Rosh haShanà è anche definito il “Giorno del Giudizio”, perché
l’ebreo lo celebra dedicandosi all’esame e alla riflessione sui
comportamenti tenuti durante l’anno, invocando il perdono di Dio, il
pentimento e il ritorno, la teshuvà.
Nella pagina 17b/1 è scritto: “Disse rabbi Yochanàn: Grande è l’efficacia della teshuvà che annulla la sentenza negativa sull’uomo". La teshuvà è
un atto di coscienza, di consapevolezza, di disponibilità a prendere
posizione e assumersi le proprie responsabilità per il futuro. Teshuvà significa “ritorno” ma vuol dire anche “risposta”. Il passato non è modificabile, ma in compenso la teshuvà ci dà il potere di plasmare il futuro. Così come Dio ha il potere di “cominciare”, l’uomo con la teshuvà di Rosh haShanà ha il potere di “ricominciare”. Si tratta di un cambiamento qualitativo. I saggi danno una definizione della teshuvà sconvolgente e apparentemente paradossale: “Essa trasforma i peccati in buone azioni”. Lo scopo della teshuvà è secondo i mistici di far tornare l’anima alla sua radice, là dove era contenuta, nella spiritualità di Dio.
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