Alla morte di Vladimir Majakovskij, nel 1930, un suo amico,
il grande linguista Roman Jakobson – dismesso per qualche pagina
l’abituale rigore dottrinario – scrisse un epicedio, un apologo
memorabile al quale diede il titolo Una generazione che ha dissipato i suoi poeti.
Elenca i nomi dei poeti fucilati (Gumilëv), suicidati (Esenin, oltre
allo stesso Majakovskij), morti di stenti (Blok, Chlebnikov). Tutti
spariti fra i trenta e i quarant’anni: «in ognuno di essi v’è la
coscienza dell’ineluttabile condanna». Non aveva né trenta né
quarant’anni, ne aveva settanta Simone Carella quando è morto dopo lunga
malattia, ieri, in una clinica romana. Ma è tristemente vero quanto
scriveva qualche anno fa (in Declino del teatro di regia)
l’amico e lungamente complice Franco Cordelli: «A un certo punto mi sono
guardato attorno e mi sono chiesto: perché i registi che ho amato sono
già morti? Morti dal punto di vista teatrale o anche, purtroppo, in
senso letterale. I grandi sperimentatori degli anni Settanta – Simone
Carella, Ugo Margio, Bruno Mazzali, Giancarlo Nanni, Memè Perlini, Mario
Ricci, Gianfranco Varetto, Giuliano Vasilicò – si sono tutti consumati,
fisicamente consumati, nella ricerca delle risorse e degli spazi per
poter continuare a lavorare, sono andati avanti per un po’ sulla base
dell’entusiasmo, del volontariato, ma alla fine si sono letteralmente
esauriti».
Gli ultimi anni di Carella – uno al quale l’entusiasmo mai è venuto meno – sono stati una successione di illusioni e di smacchi: con rampanti manager istituzionali che dopo interminabili anticamere, in nome del suo grande passato lo ricevevano, gli facevano tanti complimenti, lo mettevano cortesemente alla porta. L’ultimo suo progetto era di commissionare, agli scenografi dell’avanguardia romana che fu, una serie di affreschi “narrativi” nel foyer del Teatro India, che raccontassero la leggenda di quegli anni Sessanta e Settanta. Un album di memorie di un passato glorioso ma, soprattutto, un monito per lo stentato, lo stinto presente. Ridotto a uno scheletro nel suo letto d’ospedale, gli occhi enormi, liquidi e mobilissimi, mi ha stretto le mani Simone e mi ha ripetuto: «vedrai che lo faccio, l’affresco».
Un paio d’anni fa ha spiegato lo stesso Carella – con sorprendente nettezza “marxiana” – alla fine della bella intervista che gli ha fatto su doppiozero il giovane curatore d’arte Luca Lo Pinto (fra gli ideatori della rivista «Nero», ora emigré a Vienna): «tutta questa stagione si conclude nel 1985 con la fine dell’assessorato di Nicolini. Quello che era un processo creativo spontaneo comincia a istituzionalizzarsi. Non a caso, nel 1986 nasce RomaEuropa con l’ingresso di capitale finanziario come Ina Assitalia». Nel 1985 Carella ha meno di quarant’anni: e allora tornano, i conti di Jakobson. Ma non è stata la sua generazione, a dissipare poeti come Simone Carella. È stata la mia, invece. Dice Jakobson: «adesso è più penoso, ma più facile scrivere non di ciò che è stato perduto, sebbene della perdita e di chi ha perso». Penoso lo è senz’altro, facile non direi proprio.
Ma cos’era, Carella? La dizione amministrativa, «regista di teatro», non pare dire nulla. Sebbene i critici e gli storici (come Valentina Valentini in Nuovo teatro made in Italy 1963-2013) gli abbiano riconosciuto un ruolo di primo piano in quella che Giuseppe Bartolucci definiva, allora, la «postavanguardia» anni Settanta (divinandone peraltro il destino di dissipazione: nel «rifiuto del prodotto a favore dell’esperienza»). In spettacoli come La morte di Danton e Autodiffamazione, o nelle Luci della città (insieme alla Gaia Scienza di Giorgio Barberio Corsetti), tutti del 1975-76, Carella regista portava all’estremo la smaterializzazione dell’attore, la sua sublimazione in astratte architetture di luce (non a caso qualche anno dopo si farà promotore degli spettacoli fondativi del postmodernismo, Tango glaciale di Martone ed Eneide di Krypton di Cauteruccio). A Lo Pinto dice semplicemente, Simone: «la mia volontà era di animare un luogo dove si scambiavano continuamente le esperienze e pratiche artistiche senza distinguere tra teatro, musica, poesia, arte visiva, danza e arti performative». Il corpo fisico del performer si annullava ma anche si esaltava, in un gioco di specchi sempre fortemente ironico, nel quale le frontiere disciplinari non venivano messe in discussione: semplicemente, se ne prescindeva.
C’era, alle spalle, tutto il suo percorso. L’odissea del «giovane povero» che a quindici anni, da Carbonara di Bari, si rifugia a Roma e fa il liceo (senza concluderlo) allo Sperimentale, va a fare il fattorino dal sarto Capucci, a Piazza di Spagna frequenta i capelloni che un bel giorno lo portano a teatro, al Dioniso a Madonna dei Monti. Lui s’imbuca e scopre un mondo. Lì regna Giancarlo Celli, che mette in scena i testi «impossibili» del Gruppo 63, come Fecaloro di Elio Pagliarani: «mi piaceva il modo in cui usavano la lingua e si opponevano al servilismo lirico della poesia». Vede passare tutto e tutti, in quegli anni Sessanta. Il Living Theatre e Il Principe Costante di Grotowski. L’ascesa e le ubbie di Carmelo Bene, di Leo e Perla. Gli Uccelli nel Sessantotto. Legge La società dello spettacolo di Debord e il libro di Richard Schechner sull’enviromental theater – la sua più autentica ispirazione resterà sempre quella di inventare luoghi. Era un tempo in espansione: nel quale non solo i linguaggi si propagavano l’uno nell’altro, ma fisicamente i luoghi tradizionali venivano abbandonati e, così, radicalmente ridefiniti (l’ultimo festival di poesia, Simone lo ha inventato a Corviale). Il tempo dell’Orlando Furioso in piazza di Ronconi e Sanguineti (1969), della mostra Contemporanea di Bonito Oliva nel sotterraneo di Villa Borghese (1973). Carella divide il suo tempo fra la galleria di Fabio Sargentini, l’Attico, dove fa il «factotum» (una parola che gli piaceva da morire) per i Kounellis e gli Smithson (nel ’72 finisce sotto processo per sequestro di persona, per lo scandaloso allestimento di Gino De Dominicis, Seconda Soluzione di Immortalità, con un giovane down, Paolo Rosa, esposto alla Biennale), e il teatro-cantina Beat 72, fondato qualche anno prima da Ulisse Benedetti vicino Piazza Cavour, in Via Gioacchino Belli 72. Lì fa esibire i grandi musicisti, La Monte Young, Terry Riley, Charlemagne Palestine. Lì inventa con Cordelli le performance del Poeta postumo, mentre nel ’77 la città si rintana letteralmente sotto terra.
E, l’estate di due anni dopo, il big bang di Castelporziano: il festival dei poeti, la Woodstock della poesia che conta a un certo punto ventimila spettatori, in gran parte nudi, sulla spiaggia: in cui la poesia espansa, divenuta d’improvviso fenomeno di costume, si trasforma in teatro della crudeltà narcisistico, insolente profezia del mare della soggettività – come lo chiamava allora Dario Bellezza – in cui tuttora naufraghiamo.
Infiniti altri, con questi, i ricordi che Simone ti regalava. Con una generosità tanto vasta e competente quanto semplice, immediata. Senza nostalgie né smanie di protagonismo. Sempre rivolto agli altri, ora come allora. E a te, che non avevi visto niente, all’improvviso pareva di vedere tutto – riflesso nei suoi occhi. Quegli occhi così grandi e spalancati nei quali il suo corpo prosciugato, alla fine, pareva volersi concentrare tutto. Lo sforzo “documentario” degli ultimi anni – le dirette in streaming dell’E-Theater, le infinite riprese video con la complicità di Areta Gambaro, il Romanzo di Castelporziano pubblicato l’anno scorso con Stampa Alternativa, le stesse interviste a Lo Pinto o alla figlia Elettra, che si spera potrà presto raccoglierle e ordinarle, così come l’archivio del Beat 72 – si lascia intendere come un tentativo, epico nella sua impossibilità, di restituirci il mare di vita di cui Simone Carella è stato testimone. Erano i suoi occhi, il vero affresco.
Gli ultimi anni di Carella – uno al quale l’entusiasmo mai è venuto meno – sono stati una successione di illusioni e di smacchi: con rampanti manager istituzionali che dopo interminabili anticamere, in nome del suo grande passato lo ricevevano, gli facevano tanti complimenti, lo mettevano cortesemente alla porta. L’ultimo suo progetto era di commissionare, agli scenografi dell’avanguardia romana che fu, una serie di affreschi “narrativi” nel foyer del Teatro India, che raccontassero la leggenda di quegli anni Sessanta e Settanta. Un album di memorie di un passato glorioso ma, soprattutto, un monito per lo stentato, lo stinto presente. Ridotto a uno scheletro nel suo letto d’ospedale, gli occhi enormi, liquidi e mobilissimi, mi ha stretto le mani Simone e mi ha ripetuto: «vedrai che lo faccio, l’affresco».
Un paio d’anni fa ha spiegato lo stesso Carella – con sorprendente nettezza “marxiana” – alla fine della bella intervista che gli ha fatto su doppiozero il giovane curatore d’arte Luca Lo Pinto (fra gli ideatori della rivista «Nero», ora emigré a Vienna): «tutta questa stagione si conclude nel 1985 con la fine dell’assessorato di Nicolini. Quello che era un processo creativo spontaneo comincia a istituzionalizzarsi. Non a caso, nel 1986 nasce RomaEuropa con l’ingresso di capitale finanziario come Ina Assitalia». Nel 1985 Carella ha meno di quarant’anni: e allora tornano, i conti di Jakobson. Ma non è stata la sua generazione, a dissipare poeti come Simone Carella. È stata la mia, invece. Dice Jakobson: «adesso è più penoso, ma più facile scrivere non di ciò che è stato perduto, sebbene della perdita e di chi ha perso». Penoso lo è senz’altro, facile non direi proprio.
Ma cos’era, Carella? La dizione amministrativa, «regista di teatro», non pare dire nulla. Sebbene i critici e gli storici (come Valentina Valentini in Nuovo teatro made in Italy 1963-2013) gli abbiano riconosciuto un ruolo di primo piano in quella che Giuseppe Bartolucci definiva, allora, la «postavanguardia» anni Settanta (divinandone peraltro il destino di dissipazione: nel «rifiuto del prodotto a favore dell’esperienza»). In spettacoli come La morte di Danton e Autodiffamazione, o nelle Luci della città (insieme alla Gaia Scienza di Giorgio Barberio Corsetti), tutti del 1975-76, Carella regista portava all’estremo la smaterializzazione dell’attore, la sua sublimazione in astratte architetture di luce (non a caso qualche anno dopo si farà promotore degli spettacoli fondativi del postmodernismo, Tango glaciale di Martone ed Eneide di Krypton di Cauteruccio). A Lo Pinto dice semplicemente, Simone: «la mia volontà era di animare un luogo dove si scambiavano continuamente le esperienze e pratiche artistiche senza distinguere tra teatro, musica, poesia, arte visiva, danza e arti performative». Il corpo fisico del performer si annullava ma anche si esaltava, in un gioco di specchi sempre fortemente ironico, nel quale le frontiere disciplinari non venivano messe in discussione: semplicemente, se ne prescindeva.
C’era, alle spalle, tutto il suo percorso. L’odissea del «giovane povero» che a quindici anni, da Carbonara di Bari, si rifugia a Roma e fa il liceo (senza concluderlo) allo Sperimentale, va a fare il fattorino dal sarto Capucci, a Piazza di Spagna frequenta i capelloni che un bel giorno lo portano a teatro, al Dioniso a Madonna dei Monti. Lui s’imbuca e scopre un mondo. Lì regna Giancarlo Celli, che mette in scena i testi «impossibili» del Gruppo 63, come Fecaloro di Elio Pagliarani: «mi piaceva il modo in cui usavano la lingua e si opponevano al servilismo lirico della poesia». Vede passare tutto e tutti, in quegli anni Sessanta. Il Living Theatre e Il Principe Costante di Grotowski. L’ascesa e le ubbie di Carmelo Bene, di Leo e Perla. Gli Uccelli nel Sessantotto. Legge La società dello spettacolo di Debord e il libro di Richard Schechner sull’enviromental theater – la sua più autentica ispirazione resterà sempre quella di inventare luoghi. Era un tempo in espansione: nel quale non solo i linguaggi si propagavano l’uno nell’altro, ma fisicamente i luoghi tradizionali venivano abbandonati e, così, radicalmente ridefiniti (l’ultimo festival di poesia, Simone lo ha inventato a Corviale). Il tempo dell’Orlando Furioso in piazza di Ronconi e Sanguineti (1969), della mostra Contemporanea di Bonito Oliva nel sotterraneo di Villa Borghese (1973). Carella divide il suo tempo fra la galleria di Fabio Sargentini, l’Attico, dove fa il «factotum» (una parola che gli piaceva da morire) per i Kounellis e gli Smithson (nel ’72 finisce sotto processo per sequestro di persona, per lo scandaloso allestimento di Gino De Dominicis, Seconda Soluzione di Immortalità, con un giovane down, Paolo Rosa, esposto alla Biennale), e il teatro-cantina Beat 72, fondato qualche anno prima da Ulisse Benedetti vicino Piazza Cavour, in Via Gioacchino Belli 72. Lì fa esibire i grandi musicisti, La Monte Young, Terry Riley, Charlemagne Palestine. Lì inventa con Cordelli le performance del Poeta postumo, mentre nel ’77 la città si rintana letteralmente sotto terra.
E, l’estate di due anni dopo, il big bang di Castelporziano: il festival dei poeti, la Woodstock della poesia che conta a un certo punto ventimila spettatori, in gran parte nudi, sulla spiaggia: in cui la poesia espansa, divenuta d’improvviso fenomeno di costume, si trasforma in teatro della crudeltà narcisistico, insolente profezia del mare della soggettività – come lo chiamava allora Dario Bellezza – in cui tuttora naufraghiamo.
Infiniti altri, con questi, i ricordi che Simone ti regalava. Con una generosità tanto vasta e competente quanto semplice, immediata. Senza nostalgie né smanie di protagonismo. Sempre rivolto agli altri, ora come allora. E a te, che non avevi visto niente, all’improvviso pareva di vedere tutto – riflesso nei suoi occhi. Quegli occhi così grandi e spalancati nei quali il suo corpo prosciugato, alla fine, pareva volersi concentrare tutto. Lo sforzo “documentario” degli ultimi anni – le dirette in streaming dell’E-Theater, le infinite riprese video con la complicità di Areta Gambaro, il Romanzo di Castelporziano pubblicato l’anno scorso con Stampa Alternativa, le stesse interviste a Lo Pinto o alla figlia Elettra, che si spera potrà presto raccoglierle e ordinarle, così come l’archivio del Beat 72 – si lascia intendere come un tentativo, epico nella sua impossibilità, di restituirci il mare di vita di cui Simone Carella è stato testimone. Erano i suoi occhi, il vero affresco.
29 Settembre 2016
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