Parole fuori moda
La radio più bella che abbiamo, Radio 3, si è messa a cercare
le “parole fuori moda” e ha prodotto una piccola intervista al suo
direttore, Marino Sinibaldi, che ha segnalato: “fantasticheria”. Non
solo un termine che non si usa quasi più, ma anche un fenomeno al quale
ci abbandoniamo, purtroppo, sempre meno frequentemente. Chi ha voglia
più di fantasticare? E cosa poi? Giustamente Sinibaldi ha detto che esso
si collega all’ozio: per poter fantasticare bene bisogna avere (o
concedersi) un tempo libero da dedicare solo ai voli di un’immaginazione
fine a se stessa.
A me, invece, una parola non più usata che salta subito alla mente, è “zuzzurellone”. Anche se non significasse niente sarebbe comunque un bel suono: quasi il ronzare di un calabrone. Mia nonna materna, che era di Viareggio, la usava spesso. Per lei era un’offesa. Lo “zuzzurellone” era un fannullone: un “farfallone” dedito a una vita di bambineschi saltelli improduttivi da una cosa all’altra, senza combinar niente di buono. Il Dizionario dà questa definizione: “ragazzone o adulto a cui piace ancora giocare e comportarsi da bambino”. Questo probabilmente spiega il mio duraturo interesse per la questione dell’”immaturità”. Oggi un po’ mi commuovo quando mi capita di sentire questa parola, ma più spesso mi ronza da sola nella testa come una traccia mnestica dell’infanzia associata alla corpulenta e severa figura della nonna. Tante volte infatti, da ragazzo, mi son sentito dare dello “zuzzurellone” e ho subìto un lavaggio del cervello con la raccomandazione di non fare, o non diventare, uno “zuzzurellone”. In realtà io oziavo. Ero uno zuzzurellone perché, precocemente, molto fantasticavo. Purtroppo non ero ancora capace di spiegare, alla nonna e agli altri, che “si sta lavorando mentre si guarda fuori finestra” (Joseph Conrad).
L’ingiuria “zuzzurellone” è un piccolo esempio di come l’asticella
delle offese si sia parecchio alzata. Oggi (pesco sempre dal repertorio
degli improperi di mia nonna, indirizzati soprattutto, e più di
frequente, a suo figlio medico) non fanno più nessun effetto offensivo
termini come: “mascalzone”, “perdigiorno”, “caprone”, “buffone”, “brutto
ceffo”, “screanzato” e, appunto, “zuzzerellone”. Ma, in fondo, ormai
non colpiscono nemmeno, ad esempio, “scemo”, “villano” o “mariolo”. I
termini, usati ancora trent’anni fa (quando iniziai a ragionare sul
linguaggio), per prendere a male parole qualcuno, hanno perso la loro
forza e quindi attualità.
La portata dell’offesa verbale si è accresciuta. Questo non soltanto perché gli esseri umani un po’ alla volta metabolizzano e si abituano a tutto e quindi occorre inventare e aumentare i punteruoli linguistici dell’offesa. Ma anche perché è aumentato il tasso di violenza e aggressività nelle relazioni interumane. Il nostro linguaggio odierno ne è lo specchio. Ed è un po’ miope dare la colpa a internet. Tutti mezzi di comunicazione, e soprattutto le reti sociali, non fanno che ospitare la rabbia che sempre più sale dal mondo con il suo tornado di parole impazzite. Non serve censurare o filtrare certe espressioni e forme di linguaggio: è come accumulare la polvere sotto il tappeto e finire con l’illudersi che la stanza sia pulita. Anche se lo spettacolo è ributtante, è meglio leggere e ascoltare a che livello si è arrivati di aggressività e maleducazione. Le parole non fanno che registrare le emozioni e i modi di pensare. Non è che, usando termini diversi, sparirebbero la rabbia, l’odio, la paranoia. Però già un uso meno frequente di parole violente e aggressive abbasserebbe la temperatura del dibattito pubblico e delle relazioni interpersonali.
La scuola e l’educazione possono far molto perché il linguaggio non sia brutto, violento e offensivamente vuoto. Per come si è mal complicato il mondo e ci siamo aggrovigliati noi, se non esistesse ancora l’argine delle buone scuole e famiglie (e qualche altra istituzione meritevole), ci vomiteremmo addosso l’un l’altro improperi continui (e questo non farebbe ovviamente che aumentare ancor di più la violenza e l’aggressività).
Ma la cosa migliore che ciascuno di noi può fare è imporsi di moderare il proprio linguaggio, puntando alla bellezza e alla verità, magari anche riscoprendo l’uso di parole fuori moda.
A me, invece, una parola non più usata che salta subito alla mente, è “zuzzurellone”. Anche se non significasse niente sarebbe comunque un bel suono: quasi il ronzare di un calabrone. Mia nonna materna, che era di Viareggio, la usava spesso. Per lei era un’offesa. Lo “zuzzurellone” era un fannullone: un “farfallone” dedito a una vita di bambineschi saltelli improduttivi da una cosa all’altra, senza combinar niente di buono. Il Dizionario dà questa definizione: “ragazzone o adulto a cui piace ancora giocare e comportarsi da bambino”. Questo probabilmente spiega il mio duraturo interesse per la questione dell’”immaturità”. Oggi un po’ mi commuovo quando mi capita di sentire questa parola, ma più spesso mi ronza da sola nella testa come una traccia mnestica dell’infanzia associata alla corpulenta e severa figura della nonna. Tante volte infatti, da ragazzo, mi son sentito dare dello “zuzzurellone” e ho subìto un lavaggio del cervello con la raccomandazione di non fare, o non diventare, uno “zuzzurellone”. In realtà io oziavo. Ero uno zuzzurellone perché, precocemente, molto fantasticavo. Purtroppo non ero ancora capace di spiegare, alla nonna e agli altri, che “si sta lavorando mentre si guarda fuori finestra” (Joseph Conrad).
La portata dell’offesa verbale si è accresciuta. Questo non soltanto perché gli esseri umani un po’ alla volta metabolizzano e si abituano a tutto e quindi occorre inventare e aumentare i punteruoli linguistici dell’offesa. Ma anche perché è aumentato il tasso di violenza e aggressività nelle relazioni interumane. Il nostro linguaggio odierno ne è lo specchio. Ed è un po’ miope dare la colpa a internet. Tutti mezzi di comunicazione, e soprattutto le reti sociali, non fanno che ospitare la rabbia che sempre più sale dal mondo con il suo tornado di parole impazzite. Non serve censurare o filtrare certe espressioni e forme di linguaggio: è come accumulare la polvere sotto il tappeto e finire con l’illudersi che la stanza sia pulita. Anche se lo spettacolo è ributtante, è meglio leggere e ascoltare a che livello si è arrivati di aggressività e maleducazione. Le parole non fanno che registrare le emozioni e i modi di pensare. Non è che, usando termini diversi, sparirebbero la rabbia, l’odio, la paranoia. Però già un uso meno frequente di parole violente e aggressive abbasserebbe la temperatura del dibattito pubblico e delle relazioni interpersonali.
La scuola e l’educazione possono far molto perché il linguaggio non sia brutto, violento e offensivamente vuoto. Per come si è mal complicato il mondo e ci siamo aggrovigliati noi, se non esistesse ancora l’argine delle buone scuole e famiglie (e qualche altra istituzione meritevole), ci vomiteremmo addosso l’un l’altro improperi continui (e questo non farebbe ovviamente che aumentare ancor di più la violenza e l’aggressività).
Ma la cosa migliore che ciascuno di noi può fare è imporsi di moderare il proprio linguaggio, puntando alla bellezza e alla verità, magari anche riscoprendo l’uso di parole fuori moda.
Francesco Cataluccio
Ha studiato filosofia e letteratura a Firenze e Varsavia. Dal 1989 ha lavorato nell’editoria e oggi si occupa dei programmi culturali dei Frigoriferi Milanesi. Tra le sue pubblicazioni: Immaturità. La malattia del nostro tempo (Einaudi 2004; nuova ed. ampliata: 2014); Vado a vedere se di là è meglio (Sellerio 2010); Che fine faranno i libri? (Nottetempo 2010); Chernobyl (Sellerio 2011); L’ambaradan delle quisquiglie (Sellerio 2012); La memoria degli Uffizi (Sellerio 2013).
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