Dire quasi la stessa cosa: Claudia Zonghetti e Anna Karenina
Io e Anna
(e che Woody Allen e Lev Tolstoj mi perdonino)
Ci ho messo più di un mese a rispedire il
contratto di traduzione per Anna Karenina. Anzi, in realtà non l’ho
nemmeno fatto io. Ad affrancarlo e imbucarlo è stata un’amica, dopo
settimane che cercavo di dimenticarmelo nella borsa mentre il fantasma
di Leone Ginzburg infestava i miei sogni (questa dei sogni sarà una
costante, mettetevi comodi).
Insomma sì. Anna Karenina. IL romanzo. Quello che TUTTI
dicono di avere letto e amato. (Sapeste, però, in quanti mi hanno
confessato di “aspettare la mia traduzione per leggerlo, finalmente”,
annaffiando la mia ansia e confermando l’urgenza di una “questura
letteraria” che sgonfi le cifre dei lettori presunti…)
Sto tergiversando, lo so.
Ma come si fa a spiegare cosa sono stati, per me, i mesi fra i due treni di Anna Arkad’evna?
Proverò a mettere insieme qualche pensiero.
Prima di tutto: NO, non avevo sempre
accanto la traduzione di Ginzburg. Né altre traduzioni esistenti. Che
possiedo, in numero di nove, fra italiano, francese, spagnolo, inglese,
tedesco. Le ho guardate poco e niente. Non per supponenza, ma per
problemi di orecchio. Il mio è una carta moschicida, un camaleonte
piuttosto arzillo, dunque il rischio che poi seguissi accordi altrui era
alto. Mentre io volevo tenermi il più possibile al russo – e ai russi –
di Tolstoj. È forse per questa ragione che ho usato per la prima volta
anche un audiolibro.
In fondo il nòcciolo è proprio questo,
credo. Il “lurido vecchio” (mi ripeto, lo so, ma ho amato ancora di più
Anna Achmatova scoprendo che lo apostrofava a quel modo) ha saputo dare a
ognuno dei suoi personaggi una voce riconoscibile. Ognuno di loro ha i
suoi tic lessicali o sintattici, ognuno – o quasi – ha un suo lessico famigliare
(eccoli, marito e moglie riuniti), le sue idiosincrasie, i suoi vezzi.
Il tentativo è stato, dunque, quello di provare a restituire a ognuno
una veste altrettanto riconoscibile nel corso delle – tante – pagine.
Ho avuto anche io i miei “preferiti”. Il
principe Ščerbackij, per esempio, uomo di ironica saggezza con la
battuta sempre in resta: uno spasso unico e – credo – colui che mi ha
permesso di giocare di più con la lingua (cercatevi i barlacci e
sappiatemi dire che cosa ne pensate). O la principessa Mjagkaja,
brontolona enfant terrible che per prima osa dire ad alta voce
quanto ridicolo e insulso sia Karenin. Così come ho avuto giornate in
cui, all’ennesima fienagione, mandavo mail deliranti al mio redattore
chiedendogli il permesso di cambiare il finale e di spingere sotto il
treno qualcun altro. Non sono mancati – confesso – nemmeno bizzarri
accostamenti cinematografici che, tanto per citare il più imbarazzante,
mi hanno aiutato a rendere noiosamente e vezzosamente pignolo Karenin
(se qualcuno volesse cimentarsi, azzardi pure un nome e dirò se ha fatto
centro). Il tutto mentre la notte ricevevo le visite non troppo
frequenti, ma comunque assidue, di due soli personaggi: Karenin
(intenzionato a dimostrarmi d’essere più simpatico di quanto io
credessi) e Oblonskij (all’inesorabile ricerca di prestiti). Non ho mai
sognato lei, Anna Arkad’evna.
Forse perché l’ho ingenuamente – e
banalmente – adorata. In ogni sua piega emotiva e lessicale, di nuovo.
Perché anche lei cambia drasticamente modo di esprimersi fra il prima e
il dopo-Vronskij. Passando dalla sintassi compunta (ma mai leziosa) e
ben impostata della perfetta dama dell’alta società alle frasette
nervose, isteriche, sincopate e a volte insulse delle liti ormai quasi
folli con Vronskij.
Il contorno è stato una continua
scoperta. È verissimo (e ancora una volta banale): si capisce, si entra
in un libro solo traducendolo, guardando dunque sotto i tappeti e fra le
pentole della cucina, pulite e sporche. Ho scoperto l’ossessione
assoluta di Tolstoj per i denti (li cita in ogni possibile occasione,
come motivo di vanto e come metafora rozza ma efficace del dolore,
arrivando a finire con Vronskij che parte per la Serbia tenendosi una
guancia) e per i treni (ma questa era vagamente più nota…), ho scoperto
la sua abilità assoluta di mettersi nei panni, nella mente e nella
lingua di diversi tipi di donna (senza scivolare quasi mai nella misoginia), ho riscoperto il suo sarcasmo velato ma sempre a bersaglio…
Insomma, se dovessi dire che cosa spero
di avere ottenuto con questa traduzione, è senz’altro di avere
restituito almeno un po’ di vita ai personaggi e alle vicende, facendo
sì che chi legge abbia una voglia incontenibile di girare le pagine come
era accaduto ai primi lettori di Tolstoj.
…Questo perché ho stampata in mente la
volta in cui, sull’aereo che mi portava a Madrid al matrimonio di due
amici carissimi, il passeggero accanto a me stava leggendo proprio Anna
Karenina. “Le piace?” gli chiesi. “Oh no, è una gran noia, e so anche
come va a finire!”.
Ecco, questo il lurido vecchio non se lo merita davvero.
P.S. Non capita spesso di poter
ringraziare chi ha messo una zampa in un lavoro importante. E allora
approfitto dell’occasione. Grazie per la scrupolosa, ma rispettosissima
rilettura a Enrico Ganni e Valentina Barbero (che hanno sopportato senza
evidente stupore anche le mie mail più sconclusionate e ansiogene). E
grazie alle mie due lettrici: Giulia Baselica e Letizia Kostner. Mille
pagine sono una prova d’amore, non d’amicizia.
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