Ciò contro cui vorrei pronunciarmi in breve con un'osservazione è
il vocabolario esoterico di cui il collega T. si è servito nelle sue
argomentazioni, solitamente tanto chiare.
A me sembra che se i fornai facessero il pane solo per fornai, i
sarti vestissero solo sarti, i dentisti piombassero solo denti di
dentisti, essi si comporterebbero né più né meno esotericamente di quei
professori universitari di oggi. La particolarità e — per favore non mi
fraintenda: intendo l'espressione in maniera puramente filosofica, e
accuso me stesso non meno di qualsiasi altro — comicità del ruolo
sociale della nostra filosofia universitaria consiste nel fatto che noi,
i suoi produttori, siamo anche i suoi unici consumatori; e che le
nostre asserzioni, le quali presumibilmente riguardano «l'uomo in
generale» e dovrebbero essere vincolanti per tutti, le esponiamo in un
idioma che riguarda solo pochi e quindi la pretesa di generalità viene
smentita già nell'istante in cui viene espressa [...] infatti cosa
sarebbe più difficile dell'esprimere convinzioni filosofiche in modo non
esoterico?
Non voglio assolutamente attenuare questa difficoltà. In fondo noi
filosofi siamo degli oppositori. E dal momento che filosofando cerchiamo
di liberarci dai pregiudizi di cui siamo investiti dal linguaggio della
quotidianità e della formazione o dai pregiudizi da esso presupposti
come validi e ovvi, è un'impresa quasi contro natura — lo ammetto —
condurre questa lotta contro i pregiudizi con l'aiuto dei pregiudizi
stessi [...] gli ostacoli non solo sono così grossi perché il linguaggio
quotidiano si rivela un inadeguato materiale per il filosofare, bensì
anche perché per noi che filosofiamo il linguaggio artificiale è
diventato una seconda natura.
Ci siamo così abituati a pensare nel suo esoterico medium,
che la maggior parte di noi si accorge di qualcosa solo quando
rimaniamo impigliati nella rete delle associazioni di questo linguaggio
speciale. All'aperto, per esempio in campagna, noi filosofi medi non
siamo filosofi — con questo non voglio dire che lì non continuiamo a
parlare il nostro gergo tecnico, questo purtroppo lo facciamo in
abbondanza e alberi e rocce in silenzio prendono in giro i nostri
vocaboli ontologici — voglio dire che la Musa là non ci raggiunge o non
ci riconosce; e che essa ci "bacia" solo quando in suo onore noi
indossiamo la tintinnante uniforme del vocabolario speciale e ci sediamo
alla scrivania — cosicché in maniera ancora più modesta assomigliamo a
quei cattivi compositori che riescono a comporre solo davanti al
pianoforte aperto, ai quali non viene altro in mente se non ciò che i
tasti suggeriscono loro.
[...] se le asserzioni filosofiche dirette, non esoteriche,
riuscissero, tutto il resto non sarebbe che una semplice prestazione,
per la cui riuscita basterebbe in un certo senso lasciarsi andare. Il
compito sarebbe risolto perfettamente — della "via regia" non vale
neanche la pena di parlare — esso richiederebbe lo sforzo della
disassuefazione, un peculiare atto attraverso il quale dovremmo astrarci
dalle astratte espressioni che sono divenute per noi nostra carne e
nostro sangue — una ritraduzione artificiale nell'idioma non esoterico
di ciò che si è creato nell'idioma esoterico. [...]
Infatti se per esempio noi formuliamo una convinzione di filosofia
morale, in cui ci sia la pretesa di rivolgersi a tutti, in una dizione e
in una situazione che rendono impossibile la ricezione da parte dei
presunti destinatari, allora "diamo" in modo errato. Ciò che viene detto
contraddice la pretesa stessa: e in ciò, appunto, consiste la non
verità della situazione. E se continuiamo sempre di nuovo e per
principio ad accontentarci di una situazione del genere o ci diamo da
fare sempre e per principio a creare tali situazioni, allora anche noi
diamo prova di falsità, o comunque di una assai originale non serietà —
per quanto antico e rispettabile possa essere quest'uso e nonostante lo
facciamo con accademica serietà. Forse questa non serietà è davvero un
monopolio della filosofia universitaria.
Comunque il ruolo morale e sociale del filosofo rimane,
perseverando in tali false dare-situazioni, pura presunzione e mera
apparenza... e tale reputo la nostra odierna funzione pubblica. Molto di
quel che noi e i nostri colleghi abbiamo da dire può in qualche modo
essere davvero "valido". Ma non possiamo sostenere che la nostra parola
"valga" qualcosa. In verità non abbiamo niente da "dire". In fin dei
conti noi siamo, quando formuliamo i nostri postulati, per niente meno
fantomatici dei re dei drammi teatrali, i quali sarebbero molto
sorpresi, perfino sbigottiti, se qualcuno del pubblico prendesse alla
lettera le loro battute. Solo che gli attori ammettono sinceramente
l'apparenza dei loro appelli e si lasciano pagare l'apparenza, mentre
noi affermiamo di credere davvero ai nostri postulati, che invalidiamo
con l'esoterismo del nostro linguaggio.
Günther Anders
Sull'esoterismo del linguaggio filosofico, 1943
E' stata di recente pubblicata una bellissima introduzione al pensiero di Anders di Alessio Cernicchiaro intitolata "Gunther Anders la Cassandra della filosofia".
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