venerdì 9 marzo 2018

da "CHE FARE", che ringraziamo, Falco e Genna: fare lavoro culturale


Falco e Genna: fare lavoro culturale

Il 2017 ha visto l’uscita di due lavori letterari molto differenti per stile di scrittura e per genere ma che raccontano da due prospettive singolari il presente: sono Ipotesi di una sconfitta (Einaudi) di Giorgio Falco e History (Mondadori) di Giuseppe Genna. Quasi coetanei, entrambi milanesi, si sono generosamente prestati ad una lunga conversazione sul lavoro culturale, sulla cultura e sulla città di Milano oggi.


Siete due milanesi, quasi coetanei, entrambi scrittori. Come avete iniziato a scrivere? Per quali ragioni principali? Possiamo ancora definire il lavoro dello scrittore contemporaneo come una ‘vita agra’?
GF: Scrivo perché è l’unica cosa che so fare. Comunque non sono mai stato ossessionato dal voler scrivere per pubblicare. Difficile dire quando ho iniziato. Ufficialmente a trentatré anni. Ma come ho scritto nel recente romanzo uscito per Einaudi, Ipotesi di una sconfitta, a diciassette anni, per esempio, sono andato nel piazzale antistante San Siro, la sera del concerto di Springsteen, soltanto per il gusto di vedere, di appartenere alla massa pur essendo un singolo, un individuo come tanti. Ero lì non tanto come fan di Springsteen, quanto come liceale che per due mesi aveva prodotto, per pagarsi una vacanza mai fatta, le spillette di Springsteen. Ho scritto di quella serata trentadue anni dopo.
Il lavoro dello scrittore contemporaneo ha punti di contatto con quello di Bianciardi. Qualsiasi azione può essere fagocitata da una macchina che rimastica, digerisce, assorbe e neutralizza tutto. Ma vista oggi, la vita di Bianciardi e dei suoi personaggi mi pare da privilegiati, rispetto alla mia esistenza, per esempio. Questa non è una rivendicazione, né tantomeno una recriminazione: non vorrei avere la vita di nessun altro, basta già la mia.
GG: Per me la scrittura si pone all’origine della formazione. C’è un momento, puramente emblematico, che situa l’inizio di una pratica, quindi assai distante da sospetti di vocazione o ispirazione. Stavo guardando i programmi dell’accesso, in tv, non ricordo quanti anni avessi, credo una decina. Rimasi ipnotizzato da una poesia di Eugenio Montale, che un insegnante somministrava a un gruppo di allievi. La poesia era Felicità raggiunta, dagli Ossi di seppia. Il Meridiano delle opere del grande poeta ligure mi fu regalato qualche anno dopo, quando iniziavo a frequentare sporadicamente, da drop out assoluto, i locali della Cooperativa Intrapresa di Gianni Sassi, che si trovava a qualche decina di metri da casa mia. In quell’ambiente entrai in contatto con scrittori e artisti, finendo poi sotto il magistero di Antonio Porta, al primo corso di scrittura creativa che si tenne in Italia. È stata dunque un’evoluzione del tutto naturale, che mi ha permesso di frequentare la parola sin dagli esordi. Lavorai precocemente anche a Poesia, la rivista specialistica dell’eroico editore Nicola Crocetti, un autentico miracolo italiano: un mensile specializzato in versificazione, che vendeva fino a 60mila copie, approdando in edicola come un alien e permettendo a me, semplice redattore, di entrare in contatto con i grandi poeti dell’epoca.
In particolare, fu il rapporto con la poesia e la persona di Milo De Angelis a segnarmi indelebilmente – la visione non assolutoria, la geometria trascendente, l’etica assoluta di una scrittura precisa allo spasmo, l’impeto con cui si accede a uno sguardo nella tenebra e nella luminosità più accecanti. Fu negli anni Novanta, invece, che incominciai a maturare un interesse per la prosa, ma sempre in connessione con un idealismo poetico implacabile. La narrazione mi sembrava una prassi lasca e disordinata, ciò che sognavo era una prosa poetica che portasse a rigore linguistico il racconto. Era un periodo in qualche modo fervido.
I generi erano sottovalutati: chi pubblicava un giallo o una fantascienza non era considerato uno scrittore tout court. Imperava un lirismo indebolito, che a me e a molti miei coetanei risultava insufficiente a operare un ingaggio fecondo con la realtà. Volsi lo sguardo a coloro che mi sembravano spiriti fraterni nell’affrontamento di una rivolta della narrazione e dello stile. A quei tempi avevano successo i cosiddetti Cannibali, grazie a un supporto, a mia detta assai malizioso, delle ex neoavanguardie. Mi sentivo distantissimo dall’enfasi che veniva concessa a quegli scrittori, che tuttavia stimavo molto, a partire dall’Aldo Nove di Woobinda. Percepivo come più decisivi i membri del collettivo Luther Blissett, che studiavo e che non erano ancora emersi con il successo dell’einaudiano Q. Non avevo tuttavia contatti con quel gruppo di geniale elaborazione teorica e prassi poetica.
Esordii dunque con un “falso” Luther Blissett, intitolato Net.gener@tion e pubblicato da Mondadori, una sorta di microsaggio narrativo, in cui cercavo di sporgere lo sguardo nel futuro digitale, accennando a mutazioni di ordine antropologico e anche letterario. Ne venne fuori un autentico casino, perché il gruppo originale del movimento avambardo Luther Blissett reagì ovviamente malissimo al “furto” dello pseudonimo collettivo. Nel frattempo tentavo scritture di genere, approdando a un secondo esordio, questa volta col mio nome proprio, presso i Gialli Mondadori, con un romanzo intitolato Catrame. Piacque molto a Carlo Fruttero, il che mi aprì le porte per una pubblicazione maggiore, di genere thriller, Nel nome di Ishmael, che ebbe un buon successo, venendo tradotta in molte lingue.
La lingua letteraria non smetteva di presentarsi quale protocollo interpretativo del mondo e di me stesso. Come la lava scorre ribollente e convulsa sotto la superficie solidificata, l’ingaggio poetico mi spingeva a sperimentazioni dei generi più vari, in attesa di tentare tout court il poema in prosa. Ho impiegato anni per trovare il coraggio di scrivere direttamente prosa poetica (è accaduto con gli ultimi due lavori, La vita umana sul pianeta Terra e History). La parola non ha mai smesso di incantarmi, l’invenzione di soccorrermi, la narrazione di tentarmi. Via via la trama divenne un avversario e l’idea di stile puro un nemico.
Mi sembrava di muovermi in modo asincrono rispetto alla realtà e questo mi confortava. Avvertivo una sensazione di solitudine, poiché mi rendevo ben conto che le scritture andavano in direzione contraria a quella che tentavo. Tuttavia trovavo interlocuzione. Gli amici scrittori mi tolleravano, dopotutto.
Finché non intervenne una discontinuità. Pur senza avere mai sortito un successo di vendite, bene o male riuscivo ad afferire all’editoria per mantenermi materialmente, in una stagione che francamente smentiva il pauperismo dello scrittore, che in precedenza era stata una costante storica. Con la crisi e il conseguente abbassamento delle risorse editoriali messe a disposizione degli autori, diciamo ad altezza 2010, si è tornati alla normalità: a meno che non si sia autori di bestseller, non è più possibile mantenersi con la scrittura.
È un’epoca, quella inaugurata dalla crisi, in cui alcune prospettive e fedi e speranze, nate a metà anni Novanta, sono state definitivamente sepolte – per esempio, il tentativo di fare scrittura letteraria che divenisse mainstream, sulla scorta di quanto accaduto, per citare un esempio significativo, alla narrazione di Stephen King. Il bestseller oggi fa schifo, oggettivamente, sono rarissime le eccezioni a questo giudizio, che è addivenuto a legge del tempo. Non è snobismo, ma una semplicissima oggettività, che è desumibile da una frequentazione minima del genere bestseller in Italia. La vita dello scrittore, tanto quanto quella dell’intellettuale, è dunque tornata agra o più che difficoltosa, poiché per Bianciardi esisteva ancora un coté editoriale, che oggi è del tutto inavvicinabile e ai limiti dell’inesistente. Ciò deriva da ciò che determina una mutazione culturale senza precedenti, che fa dell’editoria una vittima occasionale e collaterale, tra le molte altre. Oggi il testo non è più percepito quale strumentazione per interpretare la realtà. Non è tanto da biasimare il fatto che si legga poco e male nella Penisola. È piuttosto da recepire il fatto che a livello globale, nell’occidente cosiddetto avanzato, il testo è disabilitato.
Le nuove generazioni non interpretano più il mondo come se fosse un testo. Ciò implica che uno scrittore agisca nella più assoluta contraddittorietà, rivolgendosi a un pubblico inesistente, o esistente in nicchie minime. È qualcosa che la poesia ha dovuto sperimentare a partire proprio dagli anni Novanta: una contrazione impressionante del pubblico stesso della poesia, che va quasi del tutto a coincidere con i poeti stessi, come analizzava con acume il migliore critico italiano degli ultimi decenni, Franco Cordelli.
L’assenza di risorse economiche ottiene un duplice esito: da un lato, la moltiplicazione delle scritture che ambiscono a essere tali, quando non lo sono, perché scrivere è un atto ad alta intensità di narcisismo e la trasformazione culturale ha imposto la sparizione dei mediatori, che non riescono più a valorizzare le opere realmente letterarie; d’altra parte, lo scrittore in sé non è più un professionista di nulla e coltiva la propria autorialità in senso hobbistico o effettivamente autentico, cioè a prescindere dalla questione del mercato o del successo, il che era per me anche auspicabile.
Resta il fatto che, esprimersi come sto facendo, per esempio, significa relegarsi in un cono d’ombra, il che comporta difficoltà per la serena vivibilità di un’arte, che è risultata privilegiata soltanto nel secondo Novecento.
Da ciò si desume una vita ben più che agra.

Milano è uno sfondo che torna spesso nella vostra scrittura: cosa la rende letteraria? Cosa vi piace di questa città?
GF: Mi piace il fatto che Milano sia piccola. Alcuni problemi derivano proprio dal sentirsi una metropoli, dall’imitare le città più grandi. Se Milano si accontentasse di essere la città di provincia più grande del mondo, sarebbe bellissima, perfetta. Se proprio Milano desidera sentirsi una metropoli, allora andrebbe considerato non solo il limite degli angusti confini comunali, ma pure l’hinterland, ovvero la cosiddetta Città Metropolitana. Lì Milano diventa molto complicata, davvero grande e pure un po’ mostruosa. Lo so, per molti milanesi non è Milano, per molti milanesi è un problema andare alla Fiera di Rho o al Forum di Assago, figuriamoci oltre. Ma ne vale la pena stare sui bordi, attraversarli, viverli; la zona sud di Milano, per Bernardo Secchi, era una delle più belle del mondo, e per quanto la sua affermazione potesse sembrare un paradosso, io ero d’accordo con lui. Lì, le dinamiche da Cerchia dei Navigli, da Bastioni – sveglia, bar, cappuccino, giornale, wifi free, lavoro più o meno di successo, pausa, lavoro, jogging al parco o palestra, soddisfazione serale nel sentirsi parte di qualcosa alla fine della giornata – scompaiono.
Quei luoghi mantengono a fatica la loro vocazione agricola e la politica di ogni schieramento vuole trasformarli per sempre in spazi di attraversamento. Sono luoghi marginali abbandonati a se stessi, e lì vale tutto. In quale altra zona del mondo Occidentale considerato evoluto è consentito sparare a un centinaio di metri dal parcheggio di un supermercato, mentre i clienti, come se niente fosse, svuotano il carrello e riempiono il bagagliaio delle loro auto? In quale altra zona è consentito sparare a cento metri dai podisti, dalle famiglie a spasso con i bambini? Parlo dei cacciatori, ovviamente. Questa è la Milano dolorosa e allucinatoria che preferisco, perché in fondo dimostra quanto sia contraddittoria, al di là degli imbellettamenti. Lì vi trovo il letterario, tra gli interstizi dei luoghi, nei dettagli dello spazio, del tragico attraversato da improvvisi fasci di luce, di bellezza anestetizzata. Ma questo non è nemmeno letterario, ha più una matrice visiva, fotografica.
GG: Milano è uno specchio e dell’Italia e dell’internalizzazione della medesima. Mi è sempre sembrata un acquario, dove, a natare, sono pesci esotici, se riguardati con attenzione. A ogni mutamento di quadro storico Milano ha già anticipato i caratteri nazionali. La città delle libere professioni e del terziario avanzatissimo è quella in cui gli anni Settanta si sono consumati ben prima del ’77. La sparizione del ceto medio, che non è un dato incontrovertibile od oggettivabile, poiché il borghesariato si intrude nel proletariato lumpen e dà vita a un meticciato tutto da interpretare, si consuma a Milano, così come la falsa rivouzione di Tangentopoli, che è appunto un eufemismo per definire una metropoli assai provinciale, capitale dei vizi e dei riti che non a caso si definiscono ambrosiani.
Milano, se fosse Milano, il che non è più, poiché è un ambiente tipicamente contemporaneo, cioè privo di sedimentazione e consapevolezza storiche, ammantata di gentrificazione almeno quanto è ostello di disperazione di massa, non è affatto letteraria. Le tradizioni poetiche, al momento, risultano secondarie. Dove sono le ossessioni milanesi di Testori, Buzzati, Bianciardi, Sereni, Ottieri e tanti poeti e narratori? In questo momento Milano mi pare emblematizzare la capitale di una rarefazione e immaterialità del tutto contemporanee e occidentali, tipiche dell’attuale fase del capitalismo, giunto al suo stato più ultimativo e teratogeno. Non viene data visibilità al disagio, che è dilagante. C’è un certo gomorrismo, con cui si rappresenta orgogliosamente la disperazione, che tuttavia non ha i toni di un’epica, poiché è reale e sottaciuta. Si tratta di un atto immorale di ferocia impensabile, in un’epoca che si autopercepisce all’insegna della comunicazione: non viene comunicata l’abiezione in cui versano i paria, che sono la quasi totalità della città. In ciò, più di prima, Milano mi sembra un’evidenza del nascondimento, il che me la rende interessante dal punto di vista letterario e politico.
Non è ovviamente secondario il fatto che io, a Milano, ci sia nato. Ha costituito sicuramente un ambiente fantasmatico, in cui fare sì che si aggirassero spettri, a principiare dai personaggi dei thriller, che soltanto occasionalmente lo sono: e personaggi e a carattere thrilling. La geometria di una città straconosciuta, esperita storicamente ed emotivamente, mi concedeva asilo alle mnemotecniche e all’immaginazione, piegando gli spazi e le aree alle esigenze più eterogenee.
Al giorno d’oggi mi ritrovo in un centro abitato assai spettrale, che non riconosco e nemmeno apprezzo, poiché non mi pare formidabile vivere all’interno di una serie di rendering. La pressione sull’immaginario letterario personale conduce più a Ballard che all’ultimo Siti, di cui va apprezzato lo sforzo titanico di ricollocazione milanese del suo giro di personaggi sotto lente artatamente moralistica.
Resta il fatto che per me Milano è la poesia di Milo De Angelis, che si è andata facendo mentre io scrivevo, mi ha accompagnato e spintonato nella vita, a ogni uscita editoriale di questo grande poeta e nell’arco tra l’uno e l’altro libro, in una perennità muta eppure tanto penetrante.


Il tema del lavoro è un tema centrale nelle vostre produzioni, e ha accompagnato molti dei vostri interventi. Come descrivereste il vostro lavoro culturale?
GF: Il lavoro mi è sempre parso un buon inizio per poi allargare lo sguardo ad altro, per parlare del’Italia e dell’Occidente. Il mio lavoro culturale sta tutto nelle opere che scrivo. Per il resto, non so come definirlo. Scrivo raramente sui giornali o in rete. Non posso scrivere su qualsiasi argomento, come a volte è richiesto agli scrittori. Posso scrivere soltanto di letteratura, di fotografia, di alcuni sport (calcio, basket, tennis), di alcune questioni che conosco da vicino, da dentro, poiché mi riguardano davvero.
GG: Non ho mai pensato al lavoro culturale come se fosse realmente un lavoro. Eppure ho lavorato per molto tempo nelle case editrici (dagli esordi presso Crocetti a Mondadori, Rizzoli, Il Saggiatore). Ho praticato il lavoro di Rete dal 1995, quando il Web grafico era appena nato, e ho sempre condotto on line, per quanto possibile, un’opera di divulgazione e innesco del dibattito culturale, politico e letterario. Al momento trovo molto difficile considerare come elemento di lavoro e come spinta culturale la tensione passata a produrre parole e idee, a intrecciarle con la realtà, a dare spazio a incantamenti. Non che sia disilluso, ma è evidente che, prima della fine del lavoro (peraltro è il titolo di un fondamentale saggio di Rifkin a metà Novanta), si sperimenta la fine della cultura e della kultur kritik che si ereditava di decennio in decennio. I margini per una pedagogia culturale si sono ristretti tantissimo.
C’è un adagio di Franco Fortini, che stigmatizza un tempo di ritrazione del lavoro culturale, qual è a tutti gli effetti il nostro: “E chi aprirà i vecchi miei lessici e legga / le carte soffiando la polvere, almeno / abbia un giusto scuotere del capo, il capo alzi, guardi / se la mattina è acuta, esca”. C’è stato perfino un tempo, in cui mi pagavano per scrivere romanzi. In quei mesi vivevo con un’acuzie del senso di colpa, proprio del moralista che viene colto a rubare un bene o a masturbarsi bene o male in pubblico. Mi guadagnavo la vita con un atto di puro ladrocinio o, nel migliore dei casi, approfittando di un’indebita speculazione. Vestire i panni dell’agitprop culturale, a quell’altezza, significava stornare il senso di colpa verso qualcosa di più collettivo e restituito. Insomma, il lavoro culturale è un privilegio che, nell’arco di cinquant’anni, che è il tempo in cui sono stato vivo finora, ha di volta in volta assunto le fattezze del privilegio, di furto o, letteralmente, di legge truffa. È una questione terminale, nel senso che possiamo toccare con mano il momento storico in cui il lavoro culturale ha assunto le fattezze di un discorso di nicchia – è l’epoca dell’emersione del digitale individuale, quello a portata di mano, l’era social che dura da qualche anno e che implementa abbandoni della lettura e della domanda di cultura – perlomeno per come la cultura fu intesa dalla fine dell’Ottocento.
Reputo difficilissimo, a oggi, un lavoro di ordine culturale, che sia penetrante e abbia un qualche riscontro in termini di una nicchia minima. La militanza politica è l’unico lavoro che mi pare abbia senso svolgere oggi. Qualunque esondazione dalla letteratura verso la società e la formazione interiore e civile è inefficace a irrigare le coscienze – al limite può assumere una forma paraspettacolare, per quello che è diventato lo spettacolo oggidì, mentre stiamo evidentemente vivendo un’epoca postspettacolare. E comunque intendo la scrittura così come Adorno guardava a Kafka: “L’autorità di Kafka è l’autorità dei testi”.
L’unica frontiera su cui ha totalmente senso continuare a mantenere una posizione, che è avvicinabile al modo che fu proprio del lavoro culturale novecentesco o dei primi anni Zero, è la questione metafisica. Cosa sia la coscienza, il lavoro interiore, la domanda sull’io, la comprensione che ci troviamo in una folle movimento estrovertito, e conseguentemente la divulgazione dei testi che approcciano il dato metafisico, davvero, mi sembra urgente più che mai. L’unica opera saggistica in cui mi sia impegnato finora è Io sono (Il Saggiatore), che è appunto un tentativo di porre al centro del colloquio tra sé e sé la questione metafisica, che è concreta e sperimentale – un autentico buco nero nel comparto occidentale, da secoli e ancor più in questi anni.


C’è un grande discutere attorno al fervore culturale, al proliferare di spazi (online e offline) per la cultura: cosa c’è (che vi piace) e cosa manca?
GF: Poiché vivo anche al mare, sull’Adriatico, soprattutto in autunno-inverno (per ragioni economiche e ambientali), non sono in grado di rispondere a questa domanda.
GG: Non vedo questo fervore e non mi pare improntato a quel protocollo ambiguo che chiamammo “cultura”. Non ravvedo novità in àmbito filosofico, le sociologie mi sembrano impazzite per una questione di accelerazione delle antropologie occidentali e tecnologiche, la politica mi sembra scarsa quanto ad assetto teorico, i testi che escono sono pochissimo letti e molto spesso non raggiungono un livello di memorabilità. Non sono affatto pessimista e non guardo mai alla realtà in termini di decadenza, quindi, se vaglio il mio giudizio, lo trovo prossimo a un’oggettività. Provo a fare un esempio, relativo a questi giorni. È uscito per il Mulino un saggio fondamentale, a firma del generale Fabio Mini, Che guerra sarà. Si tratta di un compendio di polemologia, geopolitica e stato dell’arte in fatto di tecnologia bellica – ma anche uno specchio dell’anima semplice del pianeta.
In altri tempi, si sarebbe trovato al centro di un dibattito articolato e complesso, perché è attraverso la guerra, così come per alcuni si deve guardare al commercio di stupefacenti su scala globale e per altri al porno, che noi umani siamo in grado di autointerpretarci storicamente. Ho rilevato pochissime reazioni intorno a questo libello cruciale di Fabio Mini, che tra l’altro è stato l’operatore e intellettuale che ha educato la nazione all’idea di guerra asimmetrica, meno di vent’anni fa, a corollario dei fatti del 9/11. Il fatto è che non esiste proprio una comunità mediatrice e un popolo che cerca spiegazioni alla realtà attraverso il dispositivo testuale. Il fervore concerne i supposti breakthrough che segnano i passi di avvicinamento alla singolarità tecnologica, oppure investe gli attori che partecipano all’acceso dibattito sulla possibilità che tale singolarità abbia luogo. Gli umanisti non esistono. Ciononostante, si continua e si continuerà a fare arte, ovviamente.


Immaginiamo di tracciare nuovamente il perimetro del “lavoro culturale”, non più nella Grosseto di Bianciardi, ma nella Milano di oggi. In che modo è cambiato il linguaggio della cultura?
GF: Credo si sia accentuata ancora di più l’importanza della comunicazione e così Milano, da sempre all’avanguardia in tal senso, ha influenzato il resto d’Italia. Quindi, se il linguaggio della cultura coincide con quello della comunicazione, è logica la spinta per creare sempre nuovi prodotti. Per esempio, prendiamo un romanzo italiano che interessa gli editori stranieri. Diventa subito un caso per la stampa e per i social, per i social e per la stampa, anzi, c’è la speranza che diventi il caso, meglio se prima dell’uscita italiana. A qualcuno interessa davvero come è scritto? No, nemmeno quando è uscito. Il valore è che sia stato venduto all’estero e la lingua della cultura, chiamiamola così, si adegua alla comunicazione. Un po’ come quando, all’inizio degli anni Novanta, si trovavano merci nei grandi cesti degli ipermercati, a 9.900 lire. Cosa contenevano? Le merci valevano? Cosa significava 9.900? Il valore andava al di là della cifra? L’estero del romanzo è il cesto dell’ipermercato anni Novanta?
E poi il linguaggio della comunicazione culturale è funebre. Abolirei le ricorrenze, gli anniversari: dieci anni dalla morte, trent’anni dall’uscita del romanzo, cinquant’anni dall’uscita del film, del disco, cent’anni dalla nascita. Leggiamo, guardiamo, ascoltiamo le opere, se davvero ne vale la pena. Altrimenti, se tutto si riduce al chiacchiericcio divulgativo funebre, tanto vale leggere le previsioni meteo, le pagelle delle partite di Serie A, o i necrologi.
GG: È una domanda di ordine sociologico, a cui, da scrittore, come molti altri che sono o si sentono scrittori oggi, non mi passa per l’anticamera del cervello di rispondere. Sono antagonista al disimpegno, sia chiaro. Però forse, in passato, anche per via della clamorosa ignoranza in fatto di metafisica, che critici e teorici hanno bellamente sbandierato in modo insopportabilmente irresponsabile, non si è compreso a fondo quanto Kafka scriveva nei suoi Diari: “Non è necessario che tu esca di casa. Rimani al tuo tavolo e ascolta. Non ascoltare neppure, aspetta soltanto. Non aspettare neppure, resta in perfetto silenzio e solitudine. Il mondo ti si offrirà per essere smascherato, non ne può fare a meno, estasiato si torcerà davanti a te”. È qui che si gioca la scrittura, anche quale bisturi che apre ferite nel reale. Diceva Burroughs che era da temere lo scrittore: quanti jeans avrà fatto vendere On the road di Kerouac? L’affondo di Burroughs era ironico, addirittura sardonico, ma proveniva dall’esperienza di quella scrivania kafkiana, di quell’attesa, di quel torcersi del mondo davanti a chi scrive.


In che relazione sta oggi la cultura, e l’attività di scrittura con la politica e con la società? Cos’è cambiato nel tempo?
GF: Negli anni Zero, quando lavoravo per una multinazionale in zona Lorenteggio, sono stato rappresentante sindacale. Non ero funzionario, lavoravo come impiegato e facevo attività sindacale nelle ore concesse. La mia attività di scrittore non è mai entrata nell’attività sindacale. Io ero il primo a scindere le due situazioni, tanto da non parlare mai di ciò che scrivevo e pubblicavo. Non volevo che i miei interventi, per esempio nelle assemblee, fossero inficiate dal pensiero: ah, ecco, parla lo scrittore. E comunque, anche quando, non so come, i dirigenti sindacali hanno saputo che scrivevo, non si sono mostrati interessati, né hanno pensato di utilizzarmi come risorsa; anzi, l’hanno vissuto più come un problema: in questo, e non solo, hanno avuto la medesima reazione dei dirigenti aziendali. Dall’azienda ovviamente me lo aspettavo, l’azienda non voleva avere dentro di sé uno scrittore, i tempi di Volponi e Ottieri, i tempi degli scrittori dirigenti sono finiti da decenni. Dovevo essere espulso, così la multinazionale mi ha relegato in un’azienda più piccola, per sette anni. Io ho reagito dopo cinque anni e mezzo, chiudendomi in uno sgabuzzino di cinque metri quadrati, per diciotto mesi. Sì, lo ammetto: sono stato un piccolo Bartleby contemporaneo.
Comunque, tornando al sindacato: forse negli anni Sessanta e Settanta le cose sarebbero andate diversamente. La mia attività di scrittore sarebbe stata legata a quella sindacale. Magari sarei diventato uno scrittore civile. In questo sono stato fortunato. Meglio così, meglio finire ai margini, fino a scomparire in uno sgabuzzino per diciotto mesi. Eppure impegnarsi in un’attività sindacale, oggi, sarebbe necessario, proprio perché sarebbe una cosa nuova, soprattutto per i giovani. Il disimpegno è molto più stantio. Già nei miei ultimi giorni da delegato, dicevo ai colleghi impiegati: coraggio, abbiamo intonato più jingle che canti di protesta, un jingle è ormai preistoria, un canto di protesta sarebbe attuale, necessario. Peccato, non mi hanno creduto.
GG: L’azione politica surclassa l’efficacia della scrittura, che è unicamente comunicativa e mai rivelativa. Sono un’entità politica, al di là del fatto che scrivo. Posso indossare i panni dell’intellettuale, il che muta la questione, come è chiaro. Non capisco come qualunque scrittore non si dichiari socialista: è possibile forse non combattere a fianco dei fratelli diseredati, schiacciati dal potere e dalle meschine e feroci pratiche che esso mette in atto per ridurre la vita a livello di mera sopravvivenza?
La parola viene da lontano e arriva, a liberare me e le sorelle, i fratelli. Fortuna volle che intellettuali come i secondonovecenteschi potessero parlare, partendo da una piattaforma capitalista che garantiva loro di evitare il brivido terrorizzante della sussistenza da conquistare. Lo scrittore è sempre stato un dropout peculiare, ma per cinquant’anni di occidente non si sono dati i Walser o i Benjamin, atterriti dalla sopravvivenza, capaci di pensare lateralmente, poiché la realtà schiacciava il corpo sociale con una tale intensità, da implicare fughe antalgiche e strategie di analisi originalissime, per rispondere alla realtà stessa, in un contesto metropolitano in fase ancora rurale, ovvero pregno di tutte le difficoltà classiche del mondo contadino, sperimentate in un contesto che era, come diceva Simmel, pura “vita dei nervi”. La nuova povertà del comparto metropolitano, che è un dato globale e sconvolgente, ha del tutto perduto i caratteri di ruralità, che il secondo Novecento si è impegnato a ripulire, permettendo anche solo di pensare a zone ad alta razionalizzazione, come le smart cities.
All’interno di questo moto generale, guidato da un capitale immenso e sempre più astratto, la scrittura c’entra poco. C’entra moltissimo, se e solo se la letteratura diviene veicolare a una guerra, insidiosa e definitiva, all’interno del singolo individuo.
Siamo talmente compressi dal reale esterno, che possiamo finalmente rivolgerci a un’analisi interiore, per necessità e non più attraverso indagini religiose o semplicemente psicologiche. È il regno della libertà, la strategia del ritiro alla foresta a cui accennava Ernst Jünger, laddove il Leviatano non può nulla. Come nel caso di tutte le altre arti, anche per la scrittura accade di avere ancora la possibilità, residua e incoercibile, di spingerci dove si dà il passo iniziale per affrontare l’insidioso territorio della nostra origine: ovvero noi stessi.


Scorrendo i vostri lavori, è come se il reale fosse una parte fondante dell’attività narrativa, sia attraverso l’autobiografia, il racconto del sé, che attraverso la ripresa della storia del presente. È come se aveste preso alla lettera Franco Fortini, e l’immagine dello scrittore come “Guardiano della realtà”. Come si connota il vostro modo di scrivere in rapporto al tempo? Perché scrivere dell’oggi? Quali sono secondo voi le urgenze del presente che rendono necessario questo lavoro di analisi?
GF: Non riesco a sottrarmi al contemporaneo. Lo vivo, lo attraverso, cerco di farne qualcosa nella scrittura, qualcosa che non sia una copia dell’esistente, o dell’opposizione a esso. E nemmeno è possibile scrivere libri nei quali descrivere la società, la cornice sociale, come se fossimo nell’Ottocento. Piuttosto, meglio andare a ritroso.
Rembrandt dipingeva i potenti del suo tempo in un modo completamente diverso rispetto alle aspettative dei committenti: ecco, quello era un atto politico. Se scrivo cinque pagine sul sorriso delle commesse della Rinascente nel 1950 (come ne La gemella H), il sorriso diventa altro, qualcosa di angosciante, radioso, universale, qualcosa che travalica le epoche storiche e parla a tutti, creando un cortocircuito. Adesso, poco prima di rispondere alle tue domande, stavo scrivendo un testo ambientato negli anni Novanta; scrivevo con un computer del 2017, e usavo, per prendere appunti, un taccuino con il marchio Sip, degli anni Ottanta; e questo, dopo aver fatto una telefonata con un cellulare del 2004 che ha inserito una carta sim ricaricabile del 1998, intestata peraltro non a me, ma a una persona che non vedo da diciassette anni. Ecco, spero sempre di riuscire a creare, a intercettare legami tra ogni gesto, ogni parola, ogni dettaglio; spero di usare uno stile adeguato all’opera che cerco di scrivere.
Quanto alle urgenze. Ci sono quelle politiche più ovvie, come l’impoverimento di milioni di persone in Occidente, e le conseguenze politiche che questo comporterà; e poi il desiderio di sopravvivenza, o più spesso di una vita migliore, provato da milioni di persone provenienti soprattutto dall’Africa (dire flussi migratori è più immediato ma, come tutte queste locuzioni, mi pare che occulti i motivi per i quali queste persone partono); ma soprattutto, c’è l’urgenza ambientale. Ieri ho trovato in casa una vespa e due mosche: un po’ rimbambite, ma vive, e siamo all’inizio di gennaio, nel Nord Italia. Sono entrate da fuori, e fuori era una giornata quasi di inizio primavera. Non credo ci siano abbastanza zoo per gli orsi bianchi. E tuttavia, a New York nevica, possiamo dire che il mondo sia salvo.
GG: La realtà mi sembra talmente ferina da riuscire perfettamente a risultare guardiana di se stessa. Il punto, per me, è proprio la domanda: cos’è la realtà? Tu ti riferisci alla realtà storica, geolocalizzata, in cui siamo immersi, con i suoi dendriti socioeconomici e la potenza del politico che vi si dispiega.
Questa realtà, nell’occidente in cui vivo, è sottoposta a un prodigioso cambiamento, secondo le linee di fuga di un’accelerazione che è a carattere tecnologico, almeno per quanto concerne lo sviluppo dell’esternalizzazione umana, a cui ha condotto il teratocapitalismo, nella sua fase più aggressiva e trasmutante. Ecco quindi dove io percepisco che siamo: l’intervento occidentale, giocato tutto sull’esterno, nell’elaborazione di pròtesi sempre più facilitanti, ha determinato un ogm sociale, un tessuto sociale in cui la collettività non è più un dato interpretabile. Ne è derivato un movimento di disabilitazione del testo: le nuove antropologie occidentali sono del tutto disinteressate al testo.
È un parere del tutto personale e davvero modesto: il richiamo al racconto di sé è risultato una strumentazione notevole, nel momento in cui gli scrittori percepivano una simile nebulizzazione del tempo storico. Per quanto concerne ciò che ho scritto io, il racconto in prima persona reale è iniziato nel 1996. Allora era in corso un discorso collettivo che permetteva di ragionare sui generi, ovvero sulle possibilità che ogni genere dischiudeva a chi, con la scrittura, tentasse un ingaggio della verità – poco importava se tale verità fosse una formula ideologica o una intenzionalità diretta a un’esperienza di autenticità.
Oggi mi pare che un simile discorso, se anche fosse formulato, non avrebbe la benché minima possibilità di portare da qualche parte. Per ciò che mi riguarda, con l’ultimo libro, History, ho tentato di rappresentare esattamente questo passaggio: scrivere un poema in prosa a carattere epico, ma non l’epica delle origini, bensì l’epica di una fine, prima che entri in corso un nuovo inizio. È un tentativo che forzosamente costringe a occuparsi della realtà storica, che va perdendo tuttavia quell’aggettivo assai decisivo: cosa sarebbe storico oggi? Mi pare che la realtà faccia da guardiano a me, piuttosto che il contrario…


In questo periodo storico le analisi che si fanno sul presente sono spesso velate di pessimismo. Come leggete il tempo presente e il futuro prossimo?
GF: Sono italiano, mi porto dietro la cupezza nella quale sono nato e cresciuto. Mi porto dietro pure un po’ di luce. Ti rispondo quindi con un passaggio di Ipotesi di una sconfitta: “Era un bellissimo pomeriggio di fine primavera, la temperatura di molto superiore alla media stagionale. Quanto poteva mancare per boccheggiare? Cinquant’anni? Cinquecento? Pochissimo. La bottiglia in frigorifero sarebbe diventata fredda per l’arrivo di Sa. Avevo stappato e versato ancora in piena luce, stupito dalla generosità con cui le bollicine si sacrificavano salendo verso i bordi dei calici, spingendosi ben oltre le labbra. Sapevo di essere uscito per sempre dal mondo del lavoro. Mi restava quanto restava del mondo. Le ombre delle tortore in volo svanivano lasciando per alcuni istanti l’insistenza del loro canto.”
GG: Qual è la comunità che emette analisi pessimistiche e perché? Parliamo essenzialmente di due ordini di collettività. Anzitutto la nicchia umanistica, che si trova costretta a vivere un momento di grave transizione, da un tempo che disponeva di canoni a un presente e futuro imminente in cui non funzionano più i canoni, gli universali sono stravolti, la percezione di ciò che è storico va a evanescenza, perlomeno presso le megamasse che il digitale ha permesso di osservare superficialmente e con facilità nelle relazioni interne, improntate a un analfabetismo funzionale. Poi ci sono intere fasce anagrafiche che, a questo tempo, oppongono una nostalgia di tempi trascorsi, in cui la fruizione del tempo era più distesa e meno frammentata, il lavoro esisteva come tale per via di una fase di sviluppo del sistema metropolitano, il distopico era un’ipotesi e non una prassi.
Anagrafe e grado di cultura sono l’ascissa e l’ordinata che determinano un giudizio depressivo sul presente. Purtroppo io appartengo a entrambe le coordinate cartesiane. Se osservo la mia esistenza quotidiana, non riesco a sottrarmi da un sentimento tragico del presente che sto vivendo: ho problemi con il lavoro, fatico a mantenere un arco di attenzione sufficiente a permettermi un metabolismo di ciò che studio, devo continuamente variare i parametri per arrivare a un giudizio operativo su ciò che sperimento, vivo meno gioiosamente e mi sembra di vedere attorno a me trasmutare gli universali in modo per me incomprensibile: l’esperienza collettiva della morte e dell’amore e del conflitto e del politico in genere, davvero, mi sembrano trasformate radicalmente. Non soltanto mi pare che tutto stia accelerando e che le forme siano molto più instabili di quanto accadeva in passato – c’è anche da rilevare che non ha alcun senso sedimentarsi in una forma che è già votata a un’ulteriore mutazione. Di qui, il sentimento di volatilità di se stessi e del mondo, che fa inclinare eventualmente verso un pessimismo storico, nel tempo in cui la storia non è che abbia smesso di accadere, ma non si deposita certo attraverso i nostri organi percettivi.
Se consideriamo tuttavia le comunità che operano a partire dal momento in cui l’accelerazione è divenuta inconfutabile, davvero ravvedo l’effervescenza del dibattito e una spinta entusiastica verso l’innovazione e per una forma di temporalità sconcertante ed entusiasmante: il futuro che collassa nel presente. La comunità scientifica, così come la fascia anagrafica che è cresciuta nel digitale non mi sembrano subire o coltivare l’attitudine al pessimismo, quanto alla problematicità e alla complessità di ciò che stiamo andando a vivere o già viviamo.
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