Riportiamo parte di un articolo pubblicato sul Il Piccolo, quotidiano di Trieste.
Intervista a Franca Cavagnoli.
Quali sono gli strumenti di cui necessita oggi un traduttore per trasporre nella propria lingua un gigante come Joyce?
«Un
bagaglio di vaste letture sull’autore e la sua opera, buoni dizionari,
bilingui e monolingui, come A Dictionary of Hiberno-English. E poi c'è
la rete, per cui è più facile comprendere come vengono usati certi
colloquialismi di Dublino, o capire, anche grazie alle immagini, com’è
fatto ad esempio un certo portico o una certa carrozza».
Un
ritratto dell'artista da giovane è una guida all'insurrezione contro
ogni ordine stabilito. Pensa che sia uno di quei libri che – soprattutto
a un giovane lettore – può cambiare la vita?
«Ne sono
convinta. In questi mesi ho presentato la traduzione ad alcuni gruppi di
liceali. È stata un’esperienza molto bella. Hanno fatto domande
interessanti, erano partecipi. Ne sono stata particolarmente felice
perché Un ritratto dell’artista da giovane è stato il romanzo
fondamentale della mia adolescenza. Credo che la mia passione politica
sia nata leggendo questo libro. Ne ho avuto la conferma lavorando alla
traduzione: nelle settimane in cui traducevo il primo capitolo, alla
fine della giornata avevo sempre qualche linea di febbre tanto
intensamente rivivevo le emozioni di quel tempo, e così pure mentre
traducevo le prediche di padre Arnall. Questo è anche il libro che mi ha
aiutato nella mia crisi religiosa, facendomi prendere consapevolezza
del fatto che avevo ormai perso la fede».
Nel libro ci sono riferimenti a Giordano Bruno. È forse lui il “vecchio artefice” a cui fa appello il giovane Stephen?
«La
prima volta che la parola “artefice” compare nel testo è in rapporto a
Dedalo, quando a Stephen pare di vedere una forma alta volare sopra le
onde e adagio salire nell’aria. Anche la seconda volta è in rapporto a
Dedalo, “il grande artefice di cui portava il nome”. Quando compare per
la terza volta, alla fine del romanzo, si potrebbe pensare che sia di
nuovo a lui che fa appello. Tuttavia, credo che il “vecchio padre” al
quale l'autore chiede di “sorreggerlo” sia John Joyce, suo padre. Il
romanzo inizia con la sua voce, con la voce del padre – non la voce
della madre – che racconta al piccolo Stephen una storia. Il libro si
chiude tracciando un cerchio perfetto: al momento del distacco, della
partenza dall’Irlanda, è al padre, all’artefice della sua vita, che
Stephen chiede di andare ora e sempre in suo soccorso».
Uno
dei fili rossi di Un ritratto dell'artista da giovane è costruito
attorno al termine “mormorio”. Lo troviamo ad esempio nella descrizione
del primo incontro con la prostituta. Cos'è questo mormorio che tanto
ossessiona Stephen?
«Anche nel descrivere Stephen da bambino
Joyce ricorre più volte alla parola “mormorio” o al verbo e agli
aggettivi che da essa derivano. Se pensiamo che “mormorare” si dice
soprattutto delle acque che scorrono o delle onde che lambiscono la riva
e del rumore del vento tra le fronde, si potrebbe pensare che sia
legato a qualcosa di inafferrabile, di fluido. E tutto questo è molto
joyciano. E' inoltre una parola con un suono bellissimo, che racchiude
una consonanza felice. Anche in Giacomo Joyce, la più triestina delle
sue opere, essendo stata concepita, ambientata e scritta a Trieste, il
gioco di allitterazioni, assonanze e consonanze è così vivo e
palpitante, che il testo diventa comprensibile anche solo
leggendolo/ascoltandolo a questo livello. Tradurlo per il piccolo
editore milanese Henry Beyle è stata per me una vera festa – una festa
mobile, come tutto è mobile, fluido, in Joyce».
Cosa intende
Stephen quando dice che la sua missione è di “foggiare nella fucina
dell'anima la coscienza increata della mia razza”?
«Naturalmente
è una frase aperta all’interpretazione. Credo che intenda che si
accinge a dare forma alla coscienza ancora informe della sua gente, del
suo popolo, e lo farà nel luogo più riposto dentro di sé, quello più
intimo, l’anima. Là dove non si può mentire, dove si è se stessi fino in
fondo. Sarà lui a creare la coscienza del popolo irlandese e lo farà
con la scrittura. È una dichiarazione di assunzione di responsabilità,
in cui Stephen affonda le radici della sua etica di scrittore».
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