L’altro giorno ho letto qui sull’Unità l’attacco di Goffredo Fofi alla cultura assistita, in cui si facevano confluire tante insofferenze sacrosante o meno; fino a una frecciata – in cauda venenum – all’occupazione del Valle. L’idea che uno se ne poteva fare, a partire da quel pezzo, è che questi occupanti siano dei figli di papà, politici improvvisati d’inizio estate, artisti mediocri e un po’ velleitari, frequentatori di salotti romani la mattina tarda e del foyer del teatro occupato all’ora dell’aperitivo.
LEGGI L'INVETTIVA DI GOFFREDO FOFI
La reazione di dispiacere che quindi mi è venuta era doppia: da una parte per la miscomprensione di quello che sta accadendo al Valle, dall’altra perché ho pensato: Ti prego, Goffredo, per favore non anche tu. Per favore non trasformare, per amor di vetriolo, la tua capacità critica intransigente e lucida, la tua attenzione, in paternalismo e qualunquismo. Distingui, non farti incantare dal tuo intuito, vieni a vedere con i tuoi occhi le assemblee e gli spettacoli, collabora, discuti, irritati, ma non farlo con il disincanto caustico di chi ha già liquidato il fenomeno come uno sfogo da nostalgici di un maggio francese che hanno visto solo nei film. Altrimenti – questo è il terribile rischio – la tua diventa un’idiosincrasia funzionale alle destre becere di Alemanno e Giro. E te lo dico dandoti del tu qui sul giornale, perché sei stato e sei una delle pochissime figure di riferimento a cui molti di noi, artisti, intellettuali di un paio di generazioni dopo, riconosciamo un credito. Non per piaggeria, ma per due semplici ragioni. La prima è che ci hai insegnato quanto è inutile per l’essere umano l’arrivismo, quanto è distruttiva, diabolica, la retorica dell’impegno senza l’impegno; la seconda è che ci hai fatto capire – attraverso un modello di militanza quotidiana – quanto l’arte senza la comprensione e l’intervento sulla società sia un hobby per compagnie di giro o quanto la politica senza l’attenzione all’educazione sia amministrazione di un potere che si autocelebra».
L’altra sera ero al teatro Valle a fare da indegna spalla a Fabrizio Gifuni che leggeva un libro di interviste di Carmelo Bene, curato da Emiliano Morreale: ed è stato un momento fantastico. Le invettive di Bene contro i sacerdoti della «cultura» erano quanto di meglio potessimo ascoltare. Il pubblico rideva, veniva spiazzato, aveva i lucciconi agli occhi. E, disceso dal palco, pensavo: questa sensibilità comune, questa condivisione di sguardo, che abbiamo sviluppato in questo deserto di senso che sono stati gli ultimi trent’anni in Italia, tra persone che non si sono mai troppo frequentati come me, Fabrizio Gifuni e Emiliano Morreale e molti altri in mezzo al pubblico, la dobbiamo molto anche a te. Al merito che tu hai avuto di far passare saperi tra le persone, di creare relazioni, di attivare in chi si occupa di politica, di arte, di educazione, di sociale, in Italia un dispositivo di autocritica e un desiderio di confronto, attraverso i libri che ci hai consigliato, attraverso le riviste, attraverso quello che hai seminato, attraverso l’esempio. Sarebbe il lavoro normale per chiunque dedichi la propria vita a un impegno intellettuale. Ma sai meglio di me quanto è raro in Italia un atteggiamento di curiosità e disponibilità del genere. Nessuno lo vuole meridianizzare, come dire, per neutralizzarlo; ma tu non disconoscerlo.
Venerdì proveremo a fare un’assemblea aperta sul lavoro della conoscenza, la terza in tre settimane, per continuare a ragionare sulle possibilità di una diversa politica della cultura nel bel paese del quasi-dopo Berlusconi. L’abbiamo chiamata «La furia dei cervelli» trovando un tratto comune della stolidità di questi anni: il ricatto. Una comunità culturale cresciuta per cooptazione corporativa, il deficit di rappresentanza, la distruzione dello stato sociale, la delegittimazione dell’educazione ci hanno portato a accettare come normale uno stato di minorità. Solo adesso molti di noi riconoscono la sensazione di esser vissuti per anni sotto un ricatto che abbiamo subito da padri incapaci di riconoscerci una vera autonomia, un ricatto che abbiamo finito per introiettare e per tendere a noi stessi. Insomma che sia venerdì, stasera, o un qualsiasi pomeriggio di questi, se ti va vieni. Sei davvero il benvenuto. Sai quanto sono importanti le presenze fisiche, gli abbracci e le occhiatacce. Non farci parlare con te solo attraverso un franco botta e risposta su un giornale.
LEGGI L'INVETTIVA DI GOFFREDO FOFI
La reazione di dispiacere che quindi mi è venuta era doppia: da una parte per la miscomprensione di quello che sta accadendo al Valle, dall’altra perché ho pensato: Ti prego, Goffredo, per favore non anche tu. Per favore non trasformare, per amor di vetriolo, la tua capacità critica intransigente e lucida, la tua attenzione, in paternalismo e qualunquismo. Distingui, non farti incantare dal tuo intuito, vieni a vedere con i tuoi occhi le assemblee e gli spettacoli, collabora, discuti, irritati, ma non farlo con il disincanto caustico di chi ha già liquidato il fenomeno come uno sfogo da nostalgici di un maggio francese che hanno visto solo nei film. Altrimenti – questo è il terribile rischio – la tua diventa un’idiosincrasia funzionale alle destre becere di Alemanno e Giro. E te lo dico dandoti del tu qui sul giornale, perché sei stato e sei una delle pochissime figure di riferimento a cui molti di noi, artisti, intellettuali di un paio di generazioni dopo, riconosciamo un credito. Non per piaggeria, ma per due semplici ragioni. La prima è che ci hai insegnato quanto è inutile per l’essere umano l’arrivismo, quanto è distruttiva, diabolica, la retorica dell’impegno senza l’impegno; la seconda è che ci hai fatto capire – attraverso un modello di militanza quotidiana – quanto l’arte senza la comprensione e l’intervento sulla società sia un hobby per compagnie di giro o quanto la politica senza l’attenzione all’educazione sia amministrazione di un potere che si autocelebra».
L’altra sera ero al teatro Valle a fare da indegna spalla a Fabrizio Gifuni che leggeva un libro di interviste di Carmelo Bene, curato da Emiliano Morreale: ed è stato un momento fantastico. Le invettive di Bene contro i sacerdoti della «cultura» erano quanto di meglio potessimo ascoltare. Il pubblico rideva, veniva spiazzato, aveva i lucciconi agli occhi. E, disceso dal palco, pensavo: questa sensibilità comune, questa condivisione di sguardo, che abbiamo sviluppato in questo deserto di senso che sono stati gli ultimi trent’anni in Italia, tra persone che non si sono mai troppo frequentati come me, Fabrizio Gifuni e Emiliano Morreale e molti altri in mezzo al pubblico, la dobbiamo molto anche a te. Al merito che tu hai avuto di far passare saperi tra le persone, di creare relazioni, di attivare in chi si occupa di politica, di arte, di educazione, di sociale, in Italia un dispositivo di autocritica e un desiderio di confronto, attraverso i libri che ci hai consigliato, attraverso le riviste, attraverso quello che hai seminato, attraverso l’esempio. Sarebbe il lavoro normale per chiunque dedichi la propria vita a un impegno intellettuale. Ma sai meglio di me quanto è raro in Italia un atteggiamento di curiosità e disponibilità del genere. Nessuno lo vuole meridianizzare, come dire, per neutralizzarlo; ma tu non disconoscerlo.
Venerdì proveremo a fare un’assemblea aperta sul lavoro della conoscenza, la terza in tre settimane, per continuare a ragionare sulle possibilità di una diversa politica della cultura nel bel paese del quasi-dopo Berlusconi. L’abbiamo chiamata «La furia dei cervelli» trovando un tratto comune della stolidità di questi anni: il ricatto. Una comunità culturale cresciuta per cooptazione corporativa, il deficit di rappresentanza, la distruzione dello stato sociale, la delegittimazione dell’educazione ci hanno portato a accettare come normale uno stato di minorità. Solo adesso molti di noi riconoscono la sensazione di esser vissuti per anni sotto un ricatto che abbiamo subito da padri incapaci di riconoscerci una vera autonomia, un ricatto che abbiamo finito per introiettare e per tendere a noi stessi. Insomma che sia venerdì, stasera, o un qualsiasi pomeriggio di questi, se ti va vieni. Sei davvero il benvenuto. Sai quanto sono importanti le presenze fisiche, gli abbracci e le occhiatacce. Non farci parlare con te solo attraverso un franco botta e risposta su un giornale.
il dolore è che non esiste più nè botta nè risposta
RispondiEliminaforse neanche Fofi esiste più