martedì 15 marzo 2011

L'uomo dentro l'acrostico

“Un tessuto di altri testi” è stata la prima definizione (rubata) che mi è passata per la mente alla lettura degli Acrosintagmi di Vittorio Dotti: composizioni avviluppate, nel loro movimento verticale, a lacerti letterari altrui.

Vocazione postmoderna, quella che muove il nostro autore, al limite del parassitario, testi che si nutrono di altri testi? Evocazioni metaletterarie: la creazione nasce da un altro testo, le parole nascono da altre parole in una rinnovata biblioteca di Babele dove tutto si esaurisce nel verbum, in un rimando incessante ad un referente fantasmagorico, inafferrabile.

O forse si tratta di quell’intertestualità (esibita in questo caso) che secondo alcuni è matrice di ogni esperienza letteraria, che sempre si snoda attraverso le voci altrui: nessuna monade è possibile nell’arte, è un continuum di echi, rimandi, risposte in un’orchestrazione polifonica di ascendenza bachtiniana.

L’autore partendo da un verso altrui, a volte proprio, compone poetici “sintagmi” imbrigliando (o mettendo alla prova) il proprio estro: il verso deve intrecciarsi, abbarbicarsi a versi d’altri, che funzionano come una sorta di occasione-spinta montaliana ma anche come sentiero tracciato dal quale l’autore non può sviare.

È il desiderio di mettersi alla prova con una difficoltà aggiuntiva? L’idea non è nuova: l’OULIPO francese si è esercitato nella pratica di forme letterarie sottoposte a restrizioni; o è un modo per difendersi, per “contenere” la propria espressione che deve fare i conti con lettere altrui alle quali afferrarsi? Forse Dotti non si fida della libertà creativa che potrebbe inebriarlo e portarlo a mostrare la propria nudità?

In realtà, se analizziamo il contenuto delle composizioni, incappiamo in un plausibile ritratto dell’autore: un individuo che si preclude la pienezza vitale (“respingendo esigenze anche lecite e liberatorie”), un latitante dell’esistenza, incapace di chiudere gli occhi di fronte allo squallore progressivo di un meschino reale; che coraggiosamente denuncia l’acquiescenza vile della massa, ma che diffida dell’amore, necessario orpello, menzognera consolazione della quale possiamo oltrepassare il limitare solo grazie alla maschera dell’insincerità. Al lettore pare quindi di poter voyeuristicamente godere della nudità dell’autore - ma quante scorze ci coprono e ci difendono dall’esibizione vera di noi stessi? Gli Acrosintagmi di Vittorio Dotti, in fondo, appaiono tessuti di veli preziosi: sapienti ricami e rassicuranti trasparenze.

Paola Premi

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