L’età è un serpente che si morde la coda
Di Michele Mari
Indubbiamente la giovinezza è un valore assoluto. In termini di vita intendo. Più si è vicini all’origine più si è nel bene, più si è vicini alla fine più si è nel male. Questo vale per l’animale e per la pianta, e per metafora organica vale anche per l’impero romano; di metafora in metafora, varrà ad esempio per l’amore. Se però ci scostiamo un po’ dal fuoco di questa prospettiva, dobbiamo ammettere che l’apparente naturalezza del valore-gioventù è in realtà tutta da definire, e, ciò che più conta, da definire secondo cultura e non secondo natura.
Erano più belle la Giulietta di Shakespeare e la Beatrice di Dante, poco più che bambine, o è stata più bella Annie Girardot in Rocco e i suoi fratelli? Quand’è che un cucciolo di labrador è “perfetto”? Quando è nudo come un pollo, o quando sta già assomigliando al cane maestoso che diventerà? E quand’è che (a ritroso nell’anamnesi) la prima versione di un’opera artistica non è più un’opera ma sinopia, abbozzo informe, mera velleità di progetto?
La deriva giovanilistica dell’editoria e (cosa più grave, perché non dettata da una comprensibile ratio economica ma da un’incomprensibile pusillanimità) della critica sono sotto gli occhi di tutti, per cui mi esimo dal descriverle, anche perché, vagheggiando la great Tradition di cui parlava Eliot, dovrei poi immolarmi sull’altare dello scrivere “bene” (cosa che, pare non tanto inconcepibilmente, mi è stata rimproverata).
Su un punto invece voglio spendere qualche parola. Essendo sempre stato avverso a ogni forma di corporativismo generazionale, avendo sempre, anche quando ero giovane, preso le distanze dai miei coetanei (in epoca di dilagante tondellismo, poi!) per cercare affratellamenti virtuali attraverso le epoche e le lingue (dunque Potocki mio vero vicino di banco, dunque Lovecraft mio livre de chevet e non Salinger né Bukowski), essendomi sempre irritato quando qualche critico-cartografo mi incasellava con gli altri trentenni, quando a me sarebbe piaciuto, anche in scala 1:100.000, finire dalle parti di Melville o di Conrad; ecco, essendo io uno scrittore così e prima ancora una persona così, so di poter disapprovare qualsiasi forma di solidarietà generazionale fra i “giovani” senza essere sospettabile di invidia o di senile conservatorismo.
Proprio per questo mi permetto un incipit imbarazzante come “un tempo”. UN TEMPO, dunque, lo scrittore esordiente era per definizione una potenza in buona parte inattuata: promettente, appunto, ma, quasi per definizione, “acerbo”. La sua carriera non era un adiaforo allineamento di titoli, ma una crescita, o almeno tale era considerata; di libro in libro il suo nome si faceva più rispettabile, la sua parola più ascoltata. Un po’ come uno scacchista, che torneo dopo torneo passa dalle categorie sociali alle nazionali alla norma di candidato maestro a quella, finalmente, di maestro: per diventare un giorno, chissà, Gran Maestro Internazionale ed essere così ammesso ai tornei che, a pochissimi, apriranno la strada al campionato del mondo.
Bobby Fischer, per quanto mozartiana e irregolare sia la sua fisionomia, ha percorso queste tappe ad una ad una: ha dovuto e voluto percorrerle. Questo processo non è meccanico: nel tirocinio l’autore si mette alla prova, torna sui propri temi variandoli, vive di autocitazioni, si procura una maniera (non fosse che per il gusto di abbandonarla quando gliene venga il capriccio); in altre parole, forgia la propria personalità artistica. In ogni caso la sua voce può essere colta pienamente nella diacronia, nella profondità prospettica. Leopardi non è l’Infinito o La ginestra: è l’arco che collega quello a questa, è la curva di un grafico: ed è proprio questa dimensione storica ad essere scomparsa, così dalle librerie (sempre più negozi di novità, a scapito del catalogo) come nella critica.
UN TEMPO, ancora, Sanremo e Canzonissima erano divise in due, come la città di Wells (e poi di Lang) con gli Eloj di sopra e i Morlocks di sotto: da una parte i “big”, dall’altra i “giovani”. Oggi questa ripartizione, aristotelicamente logica, è talmente superata da apparirci benjaminianamente sublime… Per questo sono anche così prevenuto al riguardo delle scuole di scrittura: perché quando mi è stato chiesto di incontrare quegli studenti mi sono perlopiù trovato di fronte a individui impazienti, bramosi di bruciare anzi annullare le tappe.
Se aveste avuto un certo tipo di vita (penso e talvolta dico, all’incrocio di positivismo e romanticismo), se aveste letto migliaia di libri, non vi sareste iscritti qui, avreste già la scuola dentro di voi. Così come mi inorridiscono certe operazioni pigmalionesche, condotte dalla parte più burocratica del Gruppo 63 in area Dams, perché, anche senza entrare nel merito delle poetiche e delle proposte, trovo che quel rapporto fra officianti e adepti abbia qualcosa di squadristico.
Ne sa qualcosa il mio amico Enrico Palandri, azzittito su un palco emiliano da una folla che gli faceva il gesto della P38: e non parlo di me, che ho scritto La stiva e l’abisso: parlo di uno che ha scritto Boccalone! Ma appunto, Boccalone è stato un manifesto generazionale: non è questa la prova che ogni opzione anagrafica (a partire dalla ricerca di una antropologica e militante “solidarietà” fra scrittori e critici) è un serpente che si morde la coda? Quando ho saputo di TQ il mio primo pensiero è stato: pazzi! Non sanno che fra poco saranno QC, poi CS, poi SS? Non hanno imparato niente dal Deserto dei Tartari? Perché concedersi una vitalità e un significato ventennali, quando la letteratura ce ne regala 2.800, di anni?
Nessun commento:
Posta un commento