Biagio Marin
Il
24 dicembre scorso cadeva il trentesimo anniversario della morte di
Biagio Marin (1891-1985), un grande poeta del nostro Novecento, autore
di liriche bellissime. Marin scriveva nel dialetto dell’isola di Grado
(Gorizia), una lingua straordinariamente dolce ed
espressiva.
*
Vido, camìname a fianco;
se fermaremo in meso ai suli
de le galassie i svuli
se tu sarà un poco stanco.
Ma intanto stemo insieme
col cuor che più no’ teme
e no’ xe più sburìo
del mondo in fogo de Dio.
Sì, duto arde de noltri intorno
e duto brusa e no’ l’ha ritorno:
per un momento se disemo
che semo un sangue e se volemo ben;
pùo duto passa e senpre oltro vien.
(Guido , camminami a fianco;
ci fermeremo in mezzo ai soli
tra le galassie in volo,
se tu sarai un poco stanco.
Ma intanto stiamo insieme
con il cuore che più non teme
e non è più spaventato
dal mondo in fiamme di Dio.
Sì, tutto arde intorno a noi
e tutto brucia e non ha ritorno:
per un momento ci diciamo
che siamo un sangue solo e ci vogliamo bene;
poi tutto passa, e sempre altro viene.)
Volaravo basâla
co’ tanto inpeto e violensa
da levâ-’i da la boca l’inossensa,
che ’l sangue solo sala.
Sè che la se spaventa
ma proprio nel profondo
se me la vardo col gno vogio biondo
e ’i digo la gran vogia che tormenta.
E alora passo via:
col vardo la valiso apena:
e in me consumo la malincunia
missiagia al so profumo de verbena.
(Vorrei baciarla
con tanto impeto e violenza
da levarle dalla bocca l’innocenza,
che il sangue solo sala.
So che si spaventa,
ma proprio nel profondo,
se la guardo con il mio occhio biondo
e le dico la grande voglia che mi tormenta.
E allora passo via:
con lo sguardo la accarezzo appena:
e in me consumo la malinconia
confusa al suo profumo di verbena.)
*
E fémena e creatura
son stào anche me in ’sto mondo,
maravegiào de l’onda del gran biondo
nei zurni de la prima arsura.
Fémena verta al pòline ne l’aria,
a le vose che invoca
de la mare la boca
su strada solitaria.
De mile piante i semi,
el vento li porteva a fecondâme:
el cuor el ’ndeva in fiame,
la boca la canteva i so poemi.
Fémena son e picola creatura,
esposta de l’amor a la violensa,
che va, co’ passo d’innosensa,
verso quel pianto che nel cuor madura.
(E femmina e creatura
sono stato anche io in questo mondo,
meravigliato dell’onda del grano biondo
nei giorni della prima arsura.
Femmina aperta al polline nell’aria,
alle voci che invocano
della madre la bocca
su strada solitaria.
Di mille piante i semi
il vento li portava a fecondarmi:
il cuore andava in fiamme,
la bocca cantava i suoi poemi.
Femmina sono e piccola creatura,
esposta alla violenza dell’amore,
che va, con passo d’innocenza,
verso quel pianto che matura in cuore.)
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