Quando un giorno qualcuno proverà a scrivere una storia dell'editoria del secolo XX si troverà di fronte a una vicenda affascinante, avventurosa e tortuosa. Ben più di ciò che si incontra trattando dell'editoria del secolo XIX. E fu proprio nel primo decennio del Novecento che si manifestò la novità essenziale: l'idea della casa editrice come forma, come luogo altamente idiosincratico che avrebbe accolto opere reciprocamente congeniali, anche se a prima vista divergenti o addirittura opposte, e le avrebbe rese pubbliche perseguendo un certo stile precisamente delineato e ben distinto da ogni altro. Fu questa l'idea - mai esplicitata perché non sembrava necessario - intorno a cui alcuni amici si raccolsero per fondare due riviste, «Die Insel» in Germania e «La Nouvelle Revue Française» in Francia, prima che, grazie all'impulso rispettivamente di Anton Kippenberg e di Gaston Gallimard, alle riviste venisse ad aggiungersi una nuova casa editrice fondata sugli stessi criteri. Ma la stessa idea, ogni volta in una variante singolare e non collegata necessariamente a una rivista, avrebbe guidato, negli stessi anni, editori così diversi come Kurt Wolff o Samuel Fischer o Ernst Rowohlt o Bruno Cassirer e, più tardi e in altri paesi, Leonard e Virginia Woolf o Alfred Knopf o James Laughlin. E infine Giulio Einaudi, Jerôme Lindon, Peter Suhrkamp, Siegfried Unseld.
Nei primi casi che ho citato si trattava di borghesi abbienti e colti, accomunati da un certo gusto e da un certo clima mentale, che si lanciavano nella loro impresa per passione, senza illudersi di renderla economicamente fruttuosa. Fare denaro producendo libri era, allora e anche oggi, una scelta fra le più aleatorie. Con i libri, come tutti sanno, è facile perdere molto denaro, mentre è arduo farne - e comunque in quantità poco rilevanti, utili soprattutto per continuare a investire. Le sorti industriali di quelle imprese sono state le più disparate: alcune case editrici, come Kurt Wolff, si sono chiuse nel giro di pochi, gloriosi anni; altre, come Gallimard, sono tuttora vivissime e ancorate alle proprie origini. Ogni volta quelle case editrici avevano sviluppato un profilo ben netto e inconfondibile, definito non soltanto dagli autori pubblicati e dallo stile delle pubblicazioni, ma dalle molte occasioni - in termini di autori e di stile - a cui quelle stesse case editrici avevano saputo dire no . Ed è questo punto che ci avvicina all'oggi e a un fenomeno opposto a cui stiamo assistendo: lo definirei l'obliterazione dei profili editoriali. Se si paragonano il primo decennio del Novecento e quello appena trascorso, si noterà subito che sono caratterizzati da due tendenze palesemente contrarie. Nei primi anni del Novecento si stava elaborando quell'idea della casa editrice come forma che poi avrebbe dominato tutto il secolo, dando talvolta un'impronta decisiva alla cultura di certi paesi in certi anni (come accadde con la «Suhrkamp culture» di cui parlò George Steiner a proposito della Suhrkamp di Unseld in rapporto alla Germania degli anni fra il Settanta e il Novanta o anche con l'Einaudi di Giulio Einaudi in rapporto all'Italia fra gli anni Cinquanta e Settanta). Nei primi dieci anni del secolo ventunesimo si è assistito invece a un progressivo appannamento delle differenze fra editori. A rigore, come ben sanno gli agenti più accorti, oggi tutti competono per gli stessi libri e il vincitore si distingue soltanto perché, vincendo, ne ha ricavato un titolo che si rivelerà un disastro o una fortuna economica. Poi, dopo qualche mese, che sia stato un successo o un fallimento, il libro in questione viene inghiottito nelle tenebre della backlist: magre tenebre, che occupano uno spazio sempre più ridotto e inessenziale, così come il passato in genere nella mente dell'ipotetico acquirente che la casa editrice vorrebbe conquistare. Tutto questo si avverte nei programmi e innanzitutto nei catalogues, quei bollettini assai significativi con i quali i libri vengono presentati ai librai - e che ormai hanno raggiunto un alto tasso di interscambiabilità, per il linguaggio, le immagini (incluse le foto degli autori) e le motivazioni suggerite per la vendita, infine per l'aspetto fisico dei libri. A questo punto, chi volesse definire che cosa una certa casa editrice non può fare, perché semplicemente non le si addice, si troverebbe in grave difficoltà. Negli Stati Uniti si può notare che il nome e il marchio dell'editore sono diventati una presenza sempre più discreta e talvolta quasi impercettibile sulle copertine dei libri, come se l'editore non volesse mostrarsi troppo invadente. Si obietterà: questo è dovuto a enormi cambiamenti strutturali che sono avvenuti e stanno avvenendo nel mercato del libro. Osservazione incontrovertibile, a cui però si può rispondere che tali cambiamenti non sarebbero di per sé incompatibili con la prosecuzione di quella linea della editoria come forma di cui ho parlato all'inizio. Di fatto, una delle nozioni oggi venerate in qualsiasi ramo di attività industriale è quella del marchio . Ma non si dà marchio che non si fondi su una netta, recisa selettività e idiosincraticità delle scelte. Altrimenti la forza del marchio non riesce a elaborarsi e svilupparsi.
Il mio timore è un altro: il drastico cambiamento nelle condizioni della produzione può aver indotto molti a credere, a torto, che quella certa idea dell'editoria, quale ha caratterizzato il secolo ventesimo, sia ormai, nell'illuminato nuovo millennio, obsoleta. Giudizio affrettato e infondato. Anche se occorre riconoscere che da qualche tempo non si vedono nascere imprese editoriali ispirate a quelle vecchie e sempre nuove idee. Un altro sintomo desolante è una certa mancanza di percezione della qualità e vastità dell'opera di un editore. Durante questa estate sono scomparse due grandi figure dell'editoria: Vladimir Dimitrijevic, editore dell'Âge d'Homme, e Daniel Keel, editore di Diogenes. La loro opera è testimoniata da cataloghi che comprendono migliaia di titoli con i quali un adolescente avido di letture potrebbe felicemente nutrirsi per anni. Ma ben poco di tutto questo traspariva sulla stampa che ha commentato la loro scomparsa. Di Daniel Keel si diceva, per esempio, che era un «amico dei suoi autori», come se questa caratteristica non fosse un requisito ovvio per qualsiasi editore. E per altro immancabile nei necrologi di certi editors, a cui si riconosce di aver seguito amorevolmente i loro autori. Ma un editore è cosa ben diversa da un editor . Editore è chi disegna il profilo di una casa editrice. E innanzitutto per la virtù e i difetti di quel profilo va giudicato e ricordato. Caso ancora più imbarazzante, la «Frankfurter Allgemeine» osserva che Daniel Keel aveva creato una terza possibilità fra la «letteratura seria» e la «letteratura di intrattenimento». Ma per Keel la stella polare del suo gusto letterario era Anton Cechov. Dovremmo includere anche Cechov in quella terra di nessuno che non è ancora «letteratura seria» e però va oltre la «letteratura d'intrattenimento» (e, nel caso di Diogenes, avrebbe dovuto includere scrittori come Friedrich Dürrenmatt, Georges Simenon o Carson Mc Cullers)?
Il triste sospetto è che questi giudizi siano una inconsapevole vendetta postuma per un felice slogan che Daniel Keel un giorno aveva inventato: «I libri Diogenes sono meno noiosi». Il presupposto ineccepibile di quella frase è che, alla lunga, soltanto la qualità non annoia. Ma, se la percezione della qualità in tutto ciò che definisce un oggetto - che sia un libro o una casa editrice - viene oscurata, perché la qualità stessa appare come un fattore irrilevante, la strada si apre verso una implacabile monotonia, dove l'unico brivido sarà dato dalle scosse galvaniche dei grandi anticipi, delle grandi tirature, dei grandi lanci pubblicitari, delle grandi vendite - e altrettanto spesso delle grandi rese, destinate ad alimentare la fiorente industria del macero.
Infine, appare ogni giorno più evidente che, per la tecnologia informatica, l'editore è un intralcio, un intermediario di cui volentieri si farebbe a meno. Ma il sospetto più grave è che, in questo momento, gli editori stiano collaborando con la tecnologia nel rendere superflui se stessi. Se l'editore rinuncia alla sua funzione di primo lettore e primo interprete dell'opera, non si vede perché l'opera dovrebbe accettare di entrare nel quadro di una casa editrice. Molto più conveniente affidarsi a un agente e a un distributore. Sarebbe l'agente, allora, a esercitare il primo giudizio sull'opera, che consiste nell'accettarla o meno. E ovviamente il giudizio dell'agente può essere anche più acuto di quello che, un tempo, era stato il giudizio dell'editore. Ma l'agente non dispone di una forma, né la crea. Un agente ha soltanto una lista di clienti. O altrimenti si può anche ipotizzare una soluzione ancora più semplice e radicale, dove sopravvivono solamente l'autore e il (gigantesco) libraio, il quale avrà riunito in sé le funzioni di editore, agente, distributore e - forse anche - di committente.
Viene naturale domandarsi se questo significherebbe un trionfo della democratizzazione o invece dell'ottundimento generale. Per parte mia, propendo per la seconda ipotesi. Quando Kurt Wolff, esattamente cento anni fa, pubblicava nella sua collana «Der Jüngste Tag», «Il giorno del giudizio», prosatori e poeti esordienti i cui nomi erano Franz Kafka, Robert Walser, Georg Trakl o Gottfried Benn, quegli scrittori trovavano immediatamente i loro primi e rari lettori perché qualcosa attirava i lettori già nell'aspetto di quei libri, che si presentavano come snelli quaderni neri con etichette e non erano accompagnati né da dichiarazioni programmatiche né da lanci pubblicitari. Ma sottintendevano qualcosa che si poteva già percepire nel nome della collana: sottintendevano un giudizio , che è la vera prova del fuoco per l'editore. In mancanza di quella prova, l'editore potrebbe anche ritirarsi dalla scena senza essere troppo notato e senza suscitare troppi rimpianti. Allora però dovrebbe anche trovarsi un altro mestiere, perché il valore del suo marchio sarebbe vicino a zero.
Roberto Calasso
Il triste sospetto è che questi giudizi siano una inconsapevole vendetta postuma per un felice slogan che Daniel Keel un giorno aveva inventato: «I libri Diogenes sono meno noiosi». Il presupposto ineccepibile di quella frase è che, alla lunga, soltanto la qualità non annoia. Ma, se la percezione della qualità in tutto ciò che definisce un oggetto - che sia un libro o una casa editrice - viene oscurata, perché la qualità stessa appare come un fattore irrilevante, la strada si apre verso una implacabile monotonia, dove l'unico brivido sarà dato dalle scosse galvaniche dei grandi anticipi, delle grandi tirature, dei grandi lanci pubblicitari, delle grandi vendite - e altrettanto spesso delle grandi rese, destinate ad alimentare la fiorente industria del macero.
Infine, appare ogni giorno più evidente che, per la tecnologia informatica, l'editore è un intralcio, un intermediario di cui volentieri si farebbe a meno. Ma il sospetto più grave è che, in questo momento, gli editori stiano collaborando con la tecnologia nel rendere superflui se stessi. Se l'editore rinuncia alla sua funzione di primo lettore e primo interprete dell'opera, non si vede perché l'opera dovrebbe accettare di entrare nel quadro di una casa editrice. Molto più conveniente affidarsi a un agente e a un distributore. Sarebbe l'agente, allora, a esercitare il primo giudizio sull'opera, che consiste nell'accettarla o meno. E ovviamente il giudizio dell'agente può essere anche più acuto di quello che, un tempo, era stato il giudizio dell'editore. Ma l'agente non dispone di una forma, né la crea. Un agente ha soltanto una lista di clienti. O altrimenti si può anche ipotizzare una soluzione ancora più semplice e radicale, dove sopravvivono solamente l'autore e il (gigantesco) libraio, il quale avrà riunito in sé le funzioni di editore, agente, distributore e - forse anche - di committente.
Viene naturale domandarsi se questo significherebbe un trionfo della democratizzazione o invece dell'ottundimento generale. Per parte mia, propendo per la seconda ipotesi. Quando Kurt Wolff, esattamente cento anni fa, pubblicava nella sua collana «Der Jüngste Tag», «Il giorno del giudizio», prosatori e poeti esordienti i cui nomi erano Franz Kafka, Robert Walser, Georg Trakl o Gottfried Benn, quegli scrittori trovavano immediatamente i loro primi e rari lettori perché qualcosa attirava i lettori già nell'aspetto di quei libri, che si presentavano come snelli quaderni neri con etichette e non erano accompagnati né da dichiarazioni programmatiche né da lanci pubblicitari. Ma sottintendevano qualcosa che si poteva già percepire nel nome della collana: sottintendevano un giudizio , che è la vera prova del fuoco per l'editore. In mancanza di quella prova, l'editore potrebbe anche ritirarsi dalla scena senza essere troppo notato e senza suscitare troppi rimpianti. Allora però dovrebbe anche trovarsi un altro mestiere, perché il valore del suo marchio sarebbe vicino a zero.
Roberto Calasso
da: www.corriere.it
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