Faccio/solo/il/mio/lavoro
«Posso affermare che, in conformità col mio giuramento, ho obbedito agli
ordini che mi sono stati impartiti; aggiungo che nei primi anni non ho
avuto nessun complesso o conflitto interiore. Stavo seduto davanti alla
mia macchina da scrivere e facevo il mio lavoro»
Nessun potere potrebbe esistere senza opprimere. O, per meglio dire,
ogni potere deve opprimere. È nella sua stessa essenza schiacciare la
libertà dell’uomo. Tuttavia i suoi ingranaggi non sono composti
unicamente da assassini e dittatori, da torturatori e militari. Se
conveniamo che il carcere, al di là di qualsiasi funzione si possa
attribuirgli, è un luogo di sofferenza in cui il potere fa gravare il
suo consistente peso sull’individuo recluso (nessuno, neanche l’essere
più tirannico, può pretendere che la libertà e la dignità dell’uomo
restino attive all’interno di una cella), dobbiamo logicamente
annoverarlo tra gli orrori più visibili del potere.
È l’apparato repressivo dello Stato: esercito, polizia, frontiera,
prigione.
Ma se riconosciamo il soldato che esegue gli ordini andando ad uccidere
nella sua divisa, gli altri ingranaggi del potere non si distinguono
necessariamente se indossano il color cachi dell’assassino
professionista o il blu scuro del difensore dell’ordine statale.
L’ingegnere, seduto dietro il suo computer, progetta gli schemi tecnici
per la costruzione di un nuovo edificio. L’architetto usa le sue
conoscenze in materia per creare dal niente i piani della nuova
struttura da erigere. Il capocantiere si occupa dell’organizzazione dei
lavori, calcola i tempi necessari, piazza le squadre degli operai.
L’operaio che travasa il cemento, l’elettricista che installa i
circuiti,… Tutti fanno il proprio lavoro. Tutti si guadagnano il pane.
Tutti obbediscono agli ordini e rispondono alle richieste. Tutti
parteciperanno alla costruzione della maxi-prigione.
Qualcuno ha posto la formula che segue per caratterizzare l’era
contemporanea: «Ogni uomo ha i principi della cosa che possiede». Se
consideriamo che possedere delle cose equivale all’attività svolta,
capiamo bene che, quali che siano le circostanze, quali che siano i
rapporti che ci circondano e ci influenzano, non possiamo sbarazzarci di
ogni responsabilità in quel che facciamo. Ciò che faccio caratterizza
anche ciò che sono. Il nostro tempo mistifica la relazione tra agire ed
essere. Facciamo cose che non corrispondono, in fin dei conti, a ciò che
siamo o vogliamo essere. Questa mistificazione ci disumanizza, nel senso
che più facciamo cose che non ci corrispondono, più diventiamo come le
cose che facciamo.
Se applichiamo questo ragionamento all’attitudine di chi, col suo
lavoro, partecipa alla costruzione di un luogo di sofferenza come la
maxi-prigione, non possiamo limitarci a considerare come soli
responsabili quei politici che hanno stabilito che occorre costruire la
più grande prigione della storia belga. Ogni persona che vi contribuisce
ha la sua responsabilità specifica. Dall’architetto fino all’operaio.
Sì, anche l’operaio. Applicando la stessa logica razionale, potremmo
andare anche oltre: se quel che facciamo ci caratterizza, allora chi
costruisce una prigione assume per forza di cose l’aspetto di un
secondino. La cosa che sta facendo, costruire una prigione, lo influenza
al punto che i principi della prigione (sofferenza, tortura, privazione,
degrado) si riflettono su di lui in quanto essere.
Se combattiamo la costruzione della maxi-prigione proponendo di
sabotarne gli ingranaggi, non possiamo puntare il dito solo sulle
attrezzature che scavano, gli uffici in cui si fanno i progetti, i
camion che trasportano le grate. Non possiamo far altro che appurare le
responsabilità personali, se non vogliamo contribuire, con la nostra
lotta, al rafforzamento della mistificazione disumanizzante di cui
sopra. Colui che partecipa col suo lavoro alla costruzione della
maxi-prigione sarà ritenuto responsabile di quello che fa. E ciò implica
che, o decide di rifiutare di partecipare ancora a un’opera destinata a
schiacciare migliaia di esseri umani, o prende coscienza della propria
responsabilità, se l’assume e la rivendica continuando a collaborare,
esponendosi così a coloro che sono determinati a fare tutto ciò che
reputano coerente col loro desiderio di libertà affinché quel luogo
atroce non veda mai la luce.
D’altronde, la citazione iniziale è di Adolf Eichmann, SS
Oberstrumbannführer, che ha avuto un ruolo determinante nell’organizzare
la deportazione di centinaia di migliaia di indesiderabili (ebrei,
rivoluzionari, handicappati, zingari,…) verso i campi di concentramento
e di sterminio. Un semplice burocrate che faceva solo il suo lavoro.
[Ricochets, n. 11, Ottobre 2015]
«Posso affermare che, in conformità col mio giuramento, ho obbedito agli
ordini che mi sono stati impartiti; aggiungo che nei primi anni non ho
avuto nessun complesso o conflitto interiore. Stavo seduto davanti alla
mia macchina da scrivere e facevo il mio lavoro»
Nessun potere potrebbe esistere senza opprimere. O, per meglio dire,
ogni potere deve opprimere. È nella sua stessa essenza schiacciare la
libertà dell’uomo. Tuttavia i suoi ingranaggi non sono composti
unicamente da assassini e dittatori, da torturatori e militari. Se
conveniamo che il carcere, al di là di qualsiasi funzione si possa
attribuirgli, è un luogo di sofferenza in cui il potere fa gravare il
suo consistente peso sull’individuo recluso (nessuno, neanche l’essere
più tirannico, può pretendere che la libertà e la dignità dell’uomo
restino attive all’interno di una cella), dobbiamo logicamente
annoverarlo tra gli orrori più visibili del potere.
È l’apparato repressivo dello Stato: esercito, polizia, frontiera,
prigione.
Ma se riconosciamo il soldato che esegue gli ordini andando ad uccidere
nella sua divisa, gli altri ingranaggi del potere non si distinguono
necessariamente se indossano il color cachi dell’assassino
professionista o il blu scuro del difensore dell’ordine statale.
L’ingegnere, seduto dietro il suo computer, progetta gli schemi tecnici
per la costruzione di un nuovo edificio. L’architetto usa le sue
conoscenze in materia per creare dal niente i piani della nuova
struttura da erigere. Il capocantiere si occupa dell’organizzazione dei
lavori, calcola i tempi necessari, piazza le squadre degli operai.
L’operaio che travasa il cemento, l’elettricista che installa i
circuiti,… Tutti fanno il proprio lavoro. Tutti si guadagnano il pane.
Tutti obbediscono agli ordini e rispondono alle richieste. Tutti
parteciperanno alla costruzione della maxi-prigione.
Qualcuno ha posto la formula che segue per caratterizzare l’era
contemporanea: «Ogni uomo ha i principi della cosa che possiede». Se
consideriamo che possedere delle cose equivale all’attività svolta,
capiamo bene che, quali che siano le circostanze, quali che siano i
rapporti che ci circondano e ci influenzano, non possiamo sbarazzarci di
ogni responsabilità in quel che facciamo. Ciò che faccio caratterizza
anche ciò che sono. Il nostro tempo mistifica la relazione tra agire ed
essere. Facciamo cose che non corrispondono, in fin dei conti, a ciò che
siamo o vogliamo essere. Questa mistificazione ci disumanizza, nel senso
che più facciamo cose che non ci corrispondono, più diventiamo come le
cose che facciamo.
Se applichiamo questo ragionamento all’attitudine di chi, col suo
lavoro, partecipa alla costruzione di un luogo di sofferenza come la
maxi-prigione, non possiamo limitarci a considerare come soli
responsabili quei politici che hanno stabilito che occorre costruire la
più grande prigione della storia belga. Ogni persona che vi contribuisce
ha la sua responsabilità specifica. Dall’architetto fino all’operaio.
Sì, anche l’operaio. Applicando la stessa logica razionale, potremmo
andare anche oltre: se quel che facciamo ci caratterizza, allora chi
costruisce una prigione assume per forza di cose l’aspetto di un
secondino. La cosa che sta facendo, costruire una prigione, lo influenza
al punto che i principi della prigione (sofferenza, tortura, privazione,
degrado) si riflettono su di lui in quanto essere.
Se combattiamo la costruzione della maxi-prigione proponendo di
sabotarne gli ingranaggi, non possiamo puntare il dito solo sulle
attrezzature che scavano, gli uffici in cui si fanno i progetti, i
camion che trasportano le grate. Non possiamo far altro che appurare le
responsabilità personali, se non vogliamo contribuire, con la nostra
lotta, al rafforzamento della mistificazione disumanizzante di cui
sopra. Colui che partecipa col suo lavoro alla costruzione della
maxi-prigione sarà ritenuto responsabile di quello che fa. E ciò implica
che, o decide di rifiutare di partecipare ancora a un’opera destinata a
schiacciare migliaia di esseri umani, o prende coscienza della propria
responsabilità, se l’assume e la rivendica continuando a collaborare,
esponendosi così a coloro che sono determinati a fare tutto ciò che
reputano coerente col loro desiderio di libertà affinché quel luogo
atroce non veda mai la luce.
D’altronde, la citazione iniziale è di Adolf Eichmann, SS
Oberstrumbannführer, che ha avuto un ruolo determinante nell’organizzare
la deportazione di centinaia di migliaia di indesiderabili (ebrei,
rivoluzionari, handicappati, zingari,…) verso i campi di concentramento
e di sterminio. Un semplice burocrate che faceva solo il suo lavoro.
[Ricochets, n. 11, Ottobre 2015]
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